di Riccardo Chartroux
Shahira Amin è una bella donna egiziana con una cascata di capelli bruni che non sembrano aver mai conosciuto il velo. E’, o meglio era, la vicedirettrice, conduttrice principale e inviata speciale del canale satellitare in inglese della tv pubblica Nile Tv. Conduceva il telegiornale e due programmi settimanali, Frontline e Hotline. E’ anche una corrispondente freelance per la Cnn, per cui ha raccontato alcune storie eccezionali: la mutilazione femminile, le donne imam in Marocco, il dramma dei rifugiati sudanesi in Egitto, nel 2004 ha vinto il premio Cnn per il miglior reportage dell’anno. In Egitto la televisione di Stato è uno strumento di propaganda, dice. Ma sul canale in inglese che si rivolge alle élites e agli stranieri c’era una libertà maggiore. Quando tentarono di farle dire che nella guerra di Gaza era Israele che lanciava i razzi sulle case e non Hamas, per esempio, si è rifiutata. “Simpatizzo con i palestinesi”, dice, “ma le notizie sono notizie”. Quando sono cominciate le proteste al Cairo, il 25 gennaio scorso, anche a Nile Tv sono cominciate ad arrivare le veline, e il canale si è allineato. “Non è solo censura, è autocensura” dice Shahira, “nessuno ha il coraggio di dire no”. Chissà perché mi è parso di sentire aria di casa. “Ho dovuto dire che le manifestazioni erano organizzate dai Fratelli Musulmani” racconta Shahira con un sorriso amaro, “e fomentate da agenti stranieri, anche se sapevo benissimo che non era vero. Il giorno delle manifestazioni a favore di Mubarak, non abbiamo parlato d’altro, abbiamo fatto credere che tutto il Paese fosse in piazza per il presidente anche se era falso, non abbiamo mai mostrato quello che accadeva in piazza Tahrir, piazza della Liberazione, avevamo le immagini dell’attacco contro i manifestanti asserragliati lì ma non le abbiamo mandate in onda. Mi sono vergognata, come giornalista e come cittadina”. Il giorno dopo Shahira andava al lavoro, si è trovata davanti alla piazza, ha visto gli attacchi ai manifestanti, le bottiglie molotov lanciate a decine. Ha mandato un sms al direttore. “Non vengo al lavoro”. L’hanno chiamata dalla tv, chiedendole se era in difficoltà, se era stata aggredita. Ha risposto che non era mai stata meglio, e che si univa alla protesta. Ora è disoccupata, ma libera. Una piccola storia, la sua, nella tempesta che ha travolto il suo Paese, ma ci ricorda che l’informazione è un campo di battaglia fondamentale per tutti i regimi. Il sostegno che indubbiamente è forte per il presidente Mubarak non ci sarebbe se gli egiziani potessero disporre di una informazione corretta, il che ha delle ripercussioni inaspettate. C’è un articolo interessante (http://www.americanthinker.com/2011/02/the_story_of_the_egyptian_revo.html ) che spiega come i social media hanno amplificato la rivolta egiziana molto al di là della portata reale che aveva nelle prime ore, in quel caso la tv di Stato aveva ragione a dire che i manifestanti erano pochi, ma nessuno ci ha creduto. “Non dovrebbe essere una sorpresa che dopo 58 anni di propaganda di Stato la gente non avrebbe creduto per un secondo ai media del governo”. Il terremoto che i social media hanno messo in moto ha richiamato quelli ufficiali, e la risposta del governo è stata la repressione. Arresti di giornalisti da parte della polizia e dei militari, la chiusura totale e la devastazione dell’ufficio di Al Jazeera, aggressioni da parte dei teppisti organizzati di Hizb’ el Watani, il Partito Democratico Nazionale, che hanno reso impossibile lavorare a tutti gli inviati stranieri. Dati forniti da Reporters Sans Frontieres: settantacinque giornalisti attaccati, settantadue detenuti per almeno due ore, sette dispersi e un morto, Ahmed Mohammed Mahmud, del giornale egiziano al Ahram, gli hanno sparato mentre fotografava da una finestra vicino a piazza Tahrir. Ma le persecuzioni di giornalisti continuano anche quando gli inviati delle grandi testate internazionali se ne vanno. Mentre intervisto Shahira Amin un tizio si avvicina, attacca a chiacchierare, poi si siede vicino a noi e tira fuori il cellulare. Shahira abbassa la voce, mi fa un cenno e sorride. Sta registrando quello che dice. “Per ora non mi faranno niente” dice lei, “ma quando le acque si saranno calmate, si occuperanno di me”. Penso che i sindacati di categoria, da noi la Fnsi, dovrebbero spendere qualche energia per tutelare i colleghi che rischiano nel loro Paese non solo la carriera ma la pelle. Premi, gemellaggi, seminari. Inviati, operatori e fotografi lo sanno, quando sei in un posto pericoloso è meglio non girare da soli, fare gruppo, tenersi d’occhio l’un l’altro, telefonarsi ogni tanto. Facciamolo. Non lasciamoli girare da soli.
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