di Pietro Nardiello
Incontriamo Ugo Di Girolamo ex consigliere comunale a Mondragone, esperto dei fenomeni mafiosi della Campania e autore del testo “Mafie, politica,pubblica amministrazione. E’ possibile sradicare il fenomeno mafioso dall’Italia”, pubblicato nel luglio 2009 con la casa editrice Guida di Napoli, con il quale abbiamo discusso di beni confiscati e criminalità organizzata.
Nell’ultimo anno e mezzo la repressione militare messa in campo da parte dello Stato si è dimostrata molto forte: cosa ne pensa?
Nei 150 anni di storia unitaria italiana, ogni qualvolta la criminalità di tipo mafioso ha raggiunto livelli tali da mettere in discussione la legittimità a governare del potere politico è scattata inesorabile una forte ondata repressiva. Passata l’emergenza si è ritornati alle vecchie pratiche e dopo qualche tempo il fenomeno si è ripresentato più grave ed esteso di prima.
Possiamo fissare l’inizio di questo andamento ciclico, che percorre l’intera storia italiana, al 1° dicembre 1860; quella notte il neoprefetto delegato Silvio Spaventa fa arrestare novanta camorristi, smantellando la guardia cittadina, composta da camorristi, messa su tre mesi prima dal delegato borbonico Liborio Romano. Da allora numerose sono state le repressioni di massa che si sono succedute, le due più importanti sono state quella guidata dal lombardo Cesare Mori, nella seconda metà degli anni venti, e quella avviata dai siciliani Falcone e Borsellino negli anni 80. L’ultima in ordine di tempo, quella diretta contro i casalesi, anche con l’impiego dell’esercito, a partire dall’estate del 2008.
Nessuna di queste ondate repressive è mai riuscita ad estirpare il fenomeno mafioso, ma al più a contenerne la virulenza.
Soprattutto nel Sud tanta mala politica è molto vicina o spesso espressione diretta dei clan: non sarebbe il caso di rivedere la legge sugli scioglimenti comunali?
Il “pacchetto sicurezza” voluto questa estate dal governo ha già introdotto alcune rilevanti modifiche, la più importante delle quali è senz’altro quella relativa ai collegamenti tra ente locale e criminalità ,mafiosa. Nel vecchio art. 143 del Testo unico enti locali il collegamento era “presunto”, da indizi, e non occorreva alcun pronunciamento o intervento della magistratura. Lo scioglimento viene disposto “… quando emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti …”.
Con le modifiche introdotte questa estate ciò è possibile quando dai prefetti siano individuati “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata”. Agli elementi concreti univoci e rilevanti deve poi aggiungersi l’individuazione precisa, nominativa, degli amministratori o dipendenti dell’ente responsabili delle infiltrazioni, nonché degli appalti o atti illeciti. Ma a questo punto più che del prefetto e della sua commissione di accesso stiamo parlando del magistrato inquirente.
Vorrei sbagliarmi, ma temo che con queste restrizioni non sentiremo più parlare di comuni sciolti, se non per quei casi rari nei quali la magistratura inquirente oltre a sgominare un clan riesce anche ad individuare amministratori responsabili in via presuntiva dei collegamenti con questi.
I mafiosi preferiscono il carcere alla confisca dei propri beni . Ritiene che il riutilizzo sociale dei beni confiscati possa rappresentare un’occasione di riscatto per i territori oppressi da questo giogo?
Senz’altro ! per stare alla nostra provincia (Caserta) si stanno realizzando delle esperienze concrete di eccezionale valore. Positive sotto ogni punto di vista, da quello economico (risparmi per gli enti locali che utilizzano beni espropriati per allocarvi strutture di servizi) e occupazionale (cooperative di giovani impegnati in attività produttive) a quello simbolico: la collettività si riappropria di beni che le erano stati sottratti con la violenza.
Cosa ne pensa di questo emendamento inserito nella finanziaria che prevede la vendita, all’asta, dei beni confiscati?
E’ storia già nota. Negli anni settanta il governo metteva in vendita i motoscafi sequestrati ai contrabbandieri brindisini. Dopo un poco questi scafi finivano nuovamente nelle mani degli stessi contrabbandieri, ed è quanto accadrà con i beni sequestrati ai mafiosi se questo emendamento dovesse passare.
Ma chi vuole che – nei nostri paesi – vada a comprarsi un immobile espropriato ad un camorrista?!?
Solo un prestanome può farlo!
Lei propone un nuovo studio per sconfiggere le mafie, ce ne parla.
Mi sono avventurato sull’insolito terreno dell’elaborazione di una strategia di lotta alle mafie che abbia l’obiettivo della risoluzione definitiva del problema. Dico insolito perché per trovare un testo analogo, nella letteratura sull’argomento, bisogna risalire al 1987, con “la palude e la città”di Pino Arlacchi e Nando Dalla Chiesa.
Partendo dalle considerazioni che facevo prima sull’inadeguatezza della sola repressione a risolvere la questione, nel saggio mi pongo l’obiettivo di individuare quali siano i meccanismi che hanno consentito alle tre mafie storiche, nate sotto i Borboni, sviluppatesi con pienezza con il regime liberale, di sopravvivere fino a oggi a dispetto di ogni ondata repressiva.
Alcune costanti nel comportamento del ceto politico italiano, dall’unità a oggi, sono alla base dell’insolita persistenza di un fenomeno criminale che nell’Europa occidentale è presente solo nel
nostro paese.
Ne consegue che per sradicare le mafie dalla nostra nazione, accanto all’azione repressiva verso i clan, occorrerà agire per modificare radicalmente alcune costanti del comportamento del ceto politico italiano.
A quali costanti si riferisce?
Corruzione, clientelismo e voto di scambio hanno segnato la vita politica italiana dal 1860 a oggi.
La corruzione è il terreno sul quale avviene l’incontro tra clan e politici, clientelismo e voto di scambio sono gli strumenti fondamentali di penetrazione dei clan nella politica e nella pubblica amministrazione, attraverso essi si realizza quell’intreccio che consente ai clan di piegare gli apparati dello Stato ai propri interessi.
L’altra costante che entra in gioco nel rapporto mafie – politica è rappresentata dalla permanente volontà del ceto politico di sottrarsi ai controlli di legalità sul proprio operato. Ciò ha comportato la mancata piena realizzazione dello Stato di diritto e la concreta costruzione al suo posto di uno “Stato di favori”, nel quale potentati politici locali e nazionali hanno gestito e gestiscono – a volte in comune con gruppi criminali – i diritti dei cittadini e il bilancio dello Stato.
La lotta alla corruzione, al clientelismo, al voto di scambio e per la realizzazione di un effettivo Stato di diritto diventano pertanto elementi strategici di una lotta politica del movimento antimafia volto a sradicare la rete dei clan dall’Italia.