di Marco Curatolo
La 16.ma sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite si è infatti conclusa a Ginevra con l’approvazione di una risoluzione che ha istituito un Osservatore speciale con il compito di indagare sulle violazioni commesse in Iran. Si tratta di una novità assoluta nella storia di questo organismo ONU nato nel 2006: mai, prima d’ora, il Consiglio aveva creato un osservatore specifico per una singola nazione, limitandosi semmai a confermare mandati già precedentemente esistenti come quello per la Corea del Nord e Myanmar.
All’Osservatore speciale, che verrà nominato a giugno nel corso della prossima sessione del Consiglio, viene affidato un mandato la cui ampiezza include, ovviamente, la possibilità di entrare nel paese per indagare di persona sugli abusi commessi dal regime, così come il diritto a richiedere alle autorità iraniane la lista dei prigionieri di coscienza. Sono quindi comprensibili sia la reazione stizzita del regime, che si era battuto con tutte le forze per evitare quello che è, a tutti gli effetti, un notevole smacco per la sua diplomazia (il portavoce del Ministro degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, ha parlato di una decisione “presa con motivazioni politiche, sotto il pesante condizionamento degli Stati Uniti”), sia la soddisfazione degli attivisti, dei difensori dei diritti umani, delle organizzazioni non governative che da anni lavoravano per ottenere questo risultato. Risultato tutt’altro che scontato, come è facile dedurre dall’esito delle votazioni della risoluzione (che era stata sostenuta da Svezia e Stati Uniti): 22 voti favorevoli, 7 contrari e ben 14 astenuti. Tra i favorevoli, va sottolineata la presenza del Brasile, di solito negli ultimi anni molto indulgente nei confronti di Teheran. Ma attivisti iraniani per i diritti umani hanno a lungo viaggiato nel paese sudamericano per parlare con le locali organizzazioni non governative, riuscendo ad ottenere che facessero pressione sul governo brasiliano. E, probabilmente, non è rimasta senza effetto l’accorata lettera che 180 attiviste iraniane per i diritti delle donne avevano recentemente inviato alla Presidente Dilma Rousseff. Tra i 14 astenuti, inoltre, ci sono molti paesi sul cui voto contrario il regime iraniano forse contava.
Poiché è dal 2005, da quando cioè Mahmood Ahmadinejad è presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, che a nessun esperto in diritti umani dell’ONU è stato consentito l’accesso nel paese, è lecito attendersi che anche in questa occasione il regime opporrà resistenza. Fino a che punto non è dato sapere. Certo è che, se anche le autorità iraniane rifiutassero di collaborare, l’Osservatore speciale potrà svolgere il suo compito raccogliendo le testimonianze delle famiglie, delle organizzazioni non governative, delle associazioni umanitarie. Ci sarà tempo per verificare la volontà del regime di cooperare o meno con l’inviato dell’ONU e di sicuro non sarà solo un osservatore, per quanto ampio sia il suo mandato, a poter risolvere tutti i problemi.
Per ora, tuttavia, il movimento per la democrazia e i diritti umani in Iran porta a casa questo successo, importantissimo sotto almeno tre aspetti. Innanzitutto perché è un segnale molto forte che arriva dalla comunità internazionale nei confronti delle autorità Teheran: la repressione seguita alle elezioni del 2009, le migliaia di prigionieri politici (inclusi i due leader dell’opposizione Mousavi e Karoubi), le centinaia di esecuzioni ogni anno, le violenze commesse nelle prigioni e nelle strade, i processi sommari, non possono più passare inosservati e la Repubblica Islamica sarà chiamata a risponderne. In secondo luogo perché permette alle vittime della repressione e alle loro famiglie di sapere che il mondo non le ha dimenticate, e che qualcuno chiederà conto al regime degli abusi commessi. In terzo luogo, il risultato conta per il modo e per il contesto in cui è stato ottenuto: a Ginevra, alla diplomazia arrogante e alle bugie senza vergogna del regime, hanno risposto con dignità e limpidezza decine di iraniani di diversa estrazione, tutti accomunati dalle ferite che il regime ha loro inferto. Attivisti, dissidenti, studenti, madri in lutto, esuli, esponenti di minoranze etniche e religiose si sono recati a Ginevra per portare con pacata compostezza, al Consiglio per i Diritti Umani, le loro testimonianze di persecuzioni e soprusi, le loro storie personali spesso dolorosissime, attraversate dalla crudeltà di un regime sanguinario e corrotto. E se l’opposizione iraniana, il movimento verde in particolare, una lezione può trarre dall’esito del voto di Ginevra, è proprio questa: superare le divisioni interne e costruire un’unità di intenti e obiettivi è l’unica strada per mettere in difficoltà il regime e per riconquistare al popolo iraniano diritti e libertà.