Articolo 21 - ESTERI
Birmania, con la complicità internazionale si stringono le maglie della censura
di Raffaella Tolicetti*
Mentre la Birmania sembra transitare da un regime totalitario, retto dal pugno di ferro dell'ora dimesso generalissimo Than Shwe, ad un regime autoritario dove il potere si divide tra pochi militari al vertice, poco è cambiato quanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali in uno dei paesi più chiusi al mondo. «Talvolta penso che una parodia di democrazia potrebbe essere più pericolosa di una dittatura palese, perché darebbe alla gente l'opportunità di evitare di fare qualcosa al riguardo». Aung San Suu Kyi, da poco libera dopo quasi vent'anni passati tra prigione e arresti domiciliari, non si illude, e ha sempre contestato la legittimità dei risultati delle elezioni del novembre scorso, alle quali il suo partito non ha partecipato, denunciando la trappola del finto gioco democratico messo in scena dai generali. Quattro mesi fa la dittatura birmana ha infatti provato a mostrare una faccia diversa al mondo, più costretta dalle pressioni economiche della comunità internazionale che da una reale volontà di svolta democratica. Ma la giunta non ha resistito a lungo sotto questa falsa copertura, e ora i generali hanno approvato una nuova legge che limita drasticamente l'accesso a internet, in un paese dove connettersi alla rete era già un lusso riservato a pochi. La restrizione dell'accesso ai servizi di comunicazione VoiP per i birmani è l'ennesima benda sulla bocca degli oppositori alla dittatura.
Nell'era della comunicazione tecnologica di massa, dove qualsiasi punto del mondo è raggiungibile da un servizio internet, persino l'Antartide, l'isolamento della Birmania ha di pari forse solo la Corea del Nord. Internet era finora l'unica finestra al mondo per gli oppositori al regime all'interno del paese, come ha rivelato il documentario Burma vj, realizzato durante la rivoluzione del 2007. Attraverso i loro telefoni o le loro telecamere, i dimostranti della rivoluzione arancione erano riusciti a far pervenire al mondo una testimonianza della repressione senza pietà dei militari, grazie all'invio dei filmati all'estero tramite internet.
L'apparente calma che doveva andare di pari passo con le riforme in senso democratico (seguendo la cosiddetta seven step road to democracy) è però durata poco. L'onda di proteste che da dicembre ha scavalcato il Mediterraneo per arrivare fino alla Cina, con la rivoluzione dei gelsomini, è suonato come un campanello d'allarme per il regime birmano. E, come prima è successo, allo spavento ha fatto capo la repressione. Informazione fa rima con rivoluzione e i generali lo hanno capito al volo. Così hanno bandito i servizi VoiP, come skype e gli altri mezzi di telecomunicazione informatica che hanno il vantaggio di essere poco costosi, e quindi facilmente accessibili in un paese dove la popolazione è poverissima.
Ma non sono solo le pressioni dall'estero a spaventare il regime. Anche dall'interno le spinte verso un'evoluzione che tenda all'apertura verso il mondo e le sue tecnologie moderne si fanno sempre di più sentire. Se si possono controllare i giornali, la televisione o la radio di stato, mezzi di comunicazione materiali e pertanto passibili di censura, è molto più difficile afferrare l'immaterialità delle nuove tecnologie in rete, che sfuggono più facilmente al controllo.
In un'intervista poco dopo la sua liberazione con il direttore responsabile del Financial Times in Asia, David Pilling, Aung San Suu Kyi, in sintonia con i tempi nonostante i quasi vent'anni passati in isolamento forzato, evocava la tecnologia come nuovo strumento di democrazia partecipativa. La leader dell'opposizione esprimeva la sua volontà di convocare una conferenza Panglong 2 con i rappresentanti delle diverse etnie presenti in birmania, riuniti attraverso il cyberspazio. “Se non riusciremo a incontrarci tutti insieme di persona in un posto, possiamo comunicare usando tutte le tecnologie informatiche disponibili nel XXI secolo.” Questo è bastato ai generali per prendere nuove misure: e l'isolamento è lo strumento più potente per reprimere le pulsioni di libertà.
Eppure se il regime riesce a contenere il paese fra le mura della censura è perchè può contare sulla complicità di alcune potenze o industrie straniere: la Cina è nota alleata. Ma i paesi occidentali, pur fieri paladini della democrazia “sulla carta”, non sono da meno. Soprattutto quando di mezzo ci sono gli interessi economici di imprese nazionali. Quando fanno ricorso a filiali cinesi per l'attuazione dei contratti per la Birmania, il cerchio si chiude. Le nuove tecnologie messe a disposizione della dittatura sono le frontiere invisibili di una prigione a cielo aperto per i birmani.
Emblematico è il caso di Alcatel Lucent, impresa franco-americana, che attraverso la sua filiale cinese pretende di aver costruito “l'autostrada della comunicazione in Myanmar” come sostiene uno dei suoi portavoce all'Afp. Più che di un'autostrada si tratta di una strettoia buia e a senso unico, visto che meno del 0,2 % dei birmani ha accesso alla rete internet. Il gruppo si nasconde dietro la scusa dell'aiuto allo sviluppo ed evoca un progetto delle Nazioni Unite per giustificare la sua presenza in Birmania. Tuttavia il documentario-inchiesta di Paul Moreira, Birmania: oppositori, business e segreti nucleari, svela non solo come il gruppo non possa dimostrare la veridicità di questo programma, ma soprattutto quanto la sua presenza nel paese è volutamente lasciata nell'ombra e oscurata dietro ad una tenda di velluto.
Non esistono documenti ufficiali dell'operazione in Birmania; peggio ancora gli uffici dell'impresa sono nascosti dietro ad una finta targa al quinto piano dell'albergo Sedona a Rangoon, che lascia supporre che il gruppo non voglia attirare l'attenzione sulle sue attività nel paese. Tra i servizi che l'impresa propone troviamo infatti il dispositivo ILI, Integrated Lawful Interception, che permette di controllare i computer “sospetti” in caso di lotta al terrorismo o di lotta al crimine. Il dispositivo necessita di una previa richiesta da parte dell'autorità giudiziaria che consente alla polizia di effettuare poi il controllo. Come sottolinea Paul Moreira, “in uno stato di diritto, funziona. In una dittatura, no.” Il gruppo rigetta la responsabilità per l'utilizzo dei mezzi installati, rifugiandosi nella casella di semplice “consulente tecnico”. Ma non può ignorare le atrocità commesse dai generali, in gran parte facilitate dal controllo delle comunicazioni. Ciò che è ovvio nelle democrazie occidentali, ovvero che il colpevole non è solo l'autore del reo ma anche il complice, non è apparentemente un principio che si applica fuori dai propri confini, come in Birmania. Ancora una volta la difesa dei diritti umani non pesa nulla sulla bilancia dei profitti economici.
*Freeburma Italy
Nell'era della comunicazione tecnologica di massa, dove qualsiasi punto del mondo è raggiungibile da un servizio internet, persino l'Antartide, l'isolamento della Birmania ha di pari forse solo la Corea del Nord. Internet era finora l'unica finestra al mondo per gli oppositori al regime all'interno del paese, come ha rivelato il documentario Burma vj, realizzato durante la rivoluzione del 2007. Attraverso i loro telefoni o le loro telecamere, i dimostranti della rivoluzione arancione erano riusciti a far pervenire al mondo una testimonianza della repressione senza pietà dei militari, grazie all'invio dei filmati all'estero tramite internet.
L'apparente calma che doveva andare di pari passo con le riforme in senso democratico (seguendo la cosiddetta seven step road to democracy) è però durata poco. L'onda di proteste che da dicembre ha scavalcato il Mediterraneo per arrivare fino alla Cina, con la rivoluzione dei gelsomini, è suonato come un campanello d'allarme per il regime birmano. E, come prima è successo, allo spavento ha fatto capo la repressione. Informazione fa rima con rivoluzione e i generali lo hanno capito al volo. Così hanno bandito i servizi VoiP, come skype e gli altri mezzi di telecomunicazione informatica che hanno il vantaggio di essere poco costosi, e quindi facilmente accessibili in un paese dove la popolazione è poverissima.
Ma non sono solo le pressioni dall'estero a spaventare il regime. Anche dall'interno le spinte verso un'evoluzione che tenda all'apertura verso il mondo e le sue tecnologie moderne si fanno sempre di più sentire. Se si possono controllare i giornali, la televisione o la radio di stato, mezzi di comunicazione materiali e pertanto passibili di censura, è molto più difficile afferrare l'immaterialità delle nuove tecnologie in rete, che sfuggono più facilmente al controllo.
In un'intervista poco dopo la sua liberazione con il direttore responsabile del Financial Times in Asia, David Pilling, Aung San Suu Kyi, in sintonia con i tempi nonostante i quasi vent'anni passati in isolamento forzato, evocava la tecnologia come nuovo strumento di democrazia partecipativa. La leader dell'opposizione esprimeva la sua volontà di convocare una conferenza Panglong 2 con i rappresentanti delle diverse etnie presenti in birmania, riuniti attraverso il cyberspazio. “Se non riusciremo a incontrarci tutti insieme di persona in un posto, possiamo comunicare usando tutte le tecnologie informatiche disponibili nel XXI secolo.” Questo è bastato ai generali per prendere nuove misure: e l'isolamento è lo strumento più potente per reprimere le pulsioni di libertà.
Eppure se il regime riesce a contenere il paese fra le mura della censura è perchè può contare sulla complicità di alcune potenze o industrie straniere: la Cina è nota alleata. Ma i paesi occidentali, pur fieri paladini della democrazia “sulla carta”, non sono da meno. Soprattutto quando di mezzo ci sono gli interessi economici di imprese nazionali. Quando fanno ricorso a filiali cinesi per l'attuazione dei contratti per la Birmania, il cerchio si chiude. Le nuove tecnologie messe a disposizione della dittatura sono le frontiere invisibili di una prigione a cielo aperto per i birmani.
Emblematico è il caso di Alcatel Lucent, impresa franco-americana, che attraverso la sua filiale cinese pretende di aver costruito “l'autostrada della comunicazione in Myanmar” come sostiene uno dei suoi portavoce all'Afp. Più che di un'autostrada si tratta di una strettoia buia e a senso unico, visto che meno del 0,2 % dei birmani ha accesso alla rete internet. Il gruppo si nasconde dietro la scusa dell'aiuto allo sviluppo ed evoca un progetto delle Nazioni Unite per giustificare la sua presenza in Birmania. Tuttavia il documentario-inchiesta di Paul Moreira, Birmania: oppositori, business e segreti nucleari, svela non solo come il gruppo non possa dimostrare la veridicità di questo programma, ma soprattutto quanto la sua presenza nel paese è volutamente lasciata nell'ombra e oscurata dietro ad una tenda di velluto.
Non esistono documenti ufficiali dell'operazione in Birmania; peggio ancora gli uffici dell'impresa sono nascosti dietro ad una finta targa al quinto piano dell'albergo Sedona a Rangoon, che lascia supporre che il gruppo non voglia attirare l'attenzione sulle sue attività nel paese. Tra i servizi che l'impresa propone troviamo infatti il dispositivo ILI, Integrated Lawful Interception, che permette di controllare i computer “sospetti” in caso di lotta al terrorismo o di lotta al crimine. Il dispositivo necessita di una previa richiesta da parte dell'autorità giudiziaria che consente alla polizia di effettuare poi il controllo. Come sottolinea Paul Moreira, “in uno stato di diritto, funziona. In una dittatura, no.” Il gruppo rigetta la responsabilità per l'utilizzo dei mezzi installati, rifugiandosi nella casella di semplice “consulente tecnico”. Ma non può ignorare le atrocità commesse dai generali, in gran parte facilitate dal controllo delle comunicazioni. Ciò che è ovvio nelle democrazie occidentali, ovvero che il colpevole non è solo l'autore del reo ma anche il complice, non è apparentemente un principio che si applica fuori dai propri confini, come in Birmania. Ancora una volta la difesa dei diritti umani non pesa nulla sulla bilancia dei profitti economici.
*Freeburma Italy
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