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Bouazizi a Pechino. Esplode la protesta anche in Cina
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Bouazizi a Pechino. Esplode la protesta anche in Cina Inflazione galoppante, corruzione, abusi di potere. Negli ultimi tempi nell’«armoniosa società» cinese le proteste antigovernative sono aumentate. A metà maggio è stata la volta della Mongolia Interna, a fine maggio per denunciare la demolizione della propria casa un uomo ha sferrato attacchi dinamitardi contro edifici governativi di Fuzhou, a inizio giugno la morte di un funzionario in stato di fermo ha scatenato una mobilitazione popolare a Lichuan, quattro giorni fa esplosioni hanno colpito edifici governativi di Tianjin. Lo scorso fine settimana centinaia di operai si sono scontrati con le forze di sicurezza a Zengcheng. Nel tentativo di contenere il malcontento popolare – esploso nel nord così come nel sud, fino ad arrivare nella «fabbrica del mondo» – la Cina, in una fase di delicata transizione politica, continua a scegliere il pugno di ferro. La forza della Repubblica Popolare, al suo interno, resta nel potente apparato della sicurezza. All’esterno, nella potenza economica.

Mesi fa in Tunisia l’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante, ha innescato la mobilitazione popolare che ha portato alla fine dell’era Ben Ali. Wang Lianmei è la ventenne venditrice ambulante del Sichuan per la quale sono scoppiate le violenze degli ultimi giorni a Zengcheng, città della Cina meridionale, nella zona di Guangzhou. Tutto è iniziato quando uomini della sicurezza hanno maltrattato Wang, incinta, allontanandola con forza dal suo banchetto, allestito dove non si doveva. Il trattamento che le è stato riservato ha scatenato l’ira della popolazione, dei lavoratori migranti di Dadun, villaggio vicino a Zengcheng. Le proteste sono subito dilagate fino alla città da 800mila abitanti. Sono state incendiate auto della polizia. Le forze di sicurezza sono intervenute in modo massiccio, con gas lacrimogeni e mezzi blindati, 25 persone – accusate di aver fomentato le proteste – sono state arrestate.

A poco è servita l’operazione di propaganda del Partito comunista (rilanciata dal China Daily), che ha spedito il responsabile locale nell’ospedale dove è stata ricoverata Wang con un cesto di frutta “riconciliatore”. Dopo i fatti di venerdì notte, le violenze sono esplose nuovamente domenica. Così agli abitanti di Zengcheng è stato “consigliato” di non uscire di casa durante la notte. Quello che, consigli a parte, si chiama coprifuoco. E la polizia è stata dispiegata in forze per mantenere la «pace» nella zona, nota per la produzione di abiti che poi finiscono nei mercati occidentali. E’ per questo che nella «fabbrica del mondo» negli ultimi anni sono arrivati migliaia di operai fuggiti dal povero Sichuan, come Wang e suo marito.

Per i media governativi cinesi i fatti di Zhengcheng vanno raccontati così. Venerdì scorso c’è stato un acceso diverbio tra Wang, suo marito (accusati di occupazione illegale di suolo pubblico) e gli uomini della sicurezza, che ha portato a uno scontro. Wang è caduta a terra e subito sul posto sono arrivate auto della polizia e un’ambulanza. La giovane è stata portata in ospedale, nonostante più di un centinaio di persone – radunatesi sul luogo dell’incidente – abbiano tentato di impedirlo. La folla ha attaccato la polizia con mattoni e pietre. Tre auto della polizia sono state danneggiate, così come l’ambulanza, diverse macchine private, un bancomat e altre «proprietà pubbliche». Nella notte, poi, la folla si è nuovamente radunata nella zona dell’incidente e ha attaccato la polizia, quando si è sparsa la voce che Wang era rimasta gravemente ferita. Ma la venditrice ambulante e il bambino stanno bene, assicura la versione ufficiale dei fatti.

Punti di vista a parte, la novità dell’ultima ondata di proteste in Cina è che teatro delle mobilitazioni sono state – almeno in alcun i casi – le città e non più solo remoti villaggi del gigante d’Asia. Le proteste, inoltre, hanno visto coinvolto un numero sempre maggiore di persone. Niente al momento lascia prevedere che nella Repubblica Popolare si assista a una versione in salsa cinese della Primavera araba. Non c’è un coordinamento dietro alle proteste, espressione di una ribellione spontanea a diverse forme di soprusi. E i vertici del potere sono ben consapevoli dell’aumento del malcontento. Dallo scoppio delle proteste antigovernative in Medio Oriente e Nord Africa, decine di dissidenti sono stati arrestati ed è stato ulteriormente rafforzato il già rigido controllo sul web. «La Cina non è un Paese dove la rabbia dell’opinione pubblica tenta di rovesciare l’ordine costituito. E’ ora di sfatare questa ridicola menzogna», si leggeva in un editoriale di ieri del Global Times, legato al Partito comunista. Nel 2007, ultimi dati cinesi disponibili, i cosiddetti «incidenti di massa» nella Repubblica Popolare sono stati più di 80mila. Adesso sembra che contarli in modo trasparente faccia più paura di prima.

di Chen Xinxin

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