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Articolo 21 - INTERNI
Parliamo di giustizia...
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di Valter Vecellio

Parliamo di giustizia... Prima notizia. Viene da Barano d’Ischia. Il sindaco di quel paese Giuseppe Gaudioso, assieme ad altri amministratori e dirigenti tecnici viene rinviato a giudizio. Tra le ipotesi di reato falso ideologico e abuso d’atti di ufficio. La vicenda si riferisce ad alcuni atti amministrativi tesi a ultimare la cosiddetta “passeggiata dei Maronti”, una struttura in cemento armato realizzata su pali di fondazione di circa sei metri, conficcati nell’arenile dei Maronti, e mai ultimata per continue vicissitudini giudiziarie.
   Il processo penale viene incardinato dal sostituto procuratore Maria Antonietta Troncone, ed iscritto – attenzione alle date – a ruolo nel 1999 (6925/99 del Registro Generale Notizie di reato).

   Due anni dopo, nell'autunno 2001 il Giudice per l’Udienza Preliminare Giovanna Ceppaluni dispone il rinvio a giudizio. Due anni sono lunghi, ma un tempo “normale” per la giustizia italiana. Nell’ambito dell’udienza preliminare l’accusa di abuso d’ufficio viene depennata, resta il falso ideologico. Da quel momento del procedimento si perde traccia.
   Presso la sezione distaccata di Ischia del tribunale di Napoli concretamente si svolge una sola udienza, seguita da una infinita serie di rinvii; a volte i termini della prescrizione sono sospesi, altre volte no. Il processo vede cambiare ben quattro giudici monocratici. Nel frattempo uno dei due teste della pubblica accusa, il consulente Starita, presente per i primi anni a ogni convocazione, muore.

   Come va a finire lo si sarà capito. Ieri il Pubblico Ministero ha chiesto la prescrizione. La notizia contiene un’altra notizia: è considerato evidentemente normale che non siano sufficienti dieci anni per processare un amministratore, che non sapremo mai se è colpevole o innocente rispetto all’accusa che gli è stata mossa.
   Il ministro della Giustizia potrebbe dedicare un po’ del suo tempo per cercare di capire come, perché e per responsabilità di chi, è potuto accadere quello che abbiamo appena descritto?
   Seconda notizia. Il signor Fabrizio Bottaro, professione stilista, ha trascorso un anno in carcere, poi gli si comunica che sono molto dispiaciuti, non è lui la persona ricercata e colpevole. La storia è abbastanza complicata, ma non al punto che si possa in qualche modo giustificare l’accaduto.

   Siamo nel luglio del 2010. Bottaro è accusato di aver minacciato, aiutato da un complice, di essersi fatto consegnare un’automobile di lusso. La denuncia parte da L.N., titolare di una società di recupero di autovetture, che si costituisce in processo come parte offesa. I giudici della VI sezione del tribunale di Roma stabiliscono però che “l’offeso” non ha ricevuto alcuna minaccia, e che Bottaro è accusato (e incarcerato) ingiustamente. Il racconto che L.N. ha fornito agli agenti del commissariato Viminale non sta in piedi, è questo che in sostanza stabiliscono i giudici. Si tratta piuttosto di una vicenda legata ad un tentativo di frode ai danni di una società assicurativa in relazione alla “sparizione” del veicolo. “Si ipotizza”, scrivono i giudici, “che lo stesso L.N. possa aver ideato una falsa rapina”. Inoltre, secondo quanto accertato dalla polizia stradale di Trieste, impegnata in indagini sul riciclaggio di autovetture all’estero, l’auto incriminata era già sottoposta a fermo amministrativo ed era a rischio confisca.
   Non solo: il giorno dell’arresto di Bottaro, il 22 luglio 2010, l’automobile della quale è stato denunciato il furto in realtà era sparita da tempo. E anche per quel che riguarda le asserite indagini: tra Bottaro e L.N. non c’è mai stata neppure una telefonata, né un solo elemento che potesse giustificare un processo. Tutto nero su bianco. L’avvocato difensore di Bottaro ci mette poi un altro carico da novanta: “La vicenda avrà sicuramente un seguito. Per un anno il mio assistito è stato messo fuori dal mondo e, durante la detenzione a Regina Coeli, gli è stato anche impedito di incontrare il suo difensore”.

   Anche qui la kafkiana notizia ne contiene un’altra: com’è possibile che possano accadere cose del genere? Che tipo di indagini sono state effettuate? Ed è vero che al signor Bottaro, durante il periodo di detenzione a Regina Coeli è stato impedito di incontrare il suo difensore?
I ministri della Giustizia e dell’Interno potrebbero dedicare un po’ del loro tempo per cercare di capire come, perché e per responsabilità di chi, è potuto accadere quello che abbiamo appena descritto?
   Terza notizia. Viene da Verona. È l’iniziativa di due avvocati, che hanno denunciato il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, per maltrattamenti ai danni di detenuti ed abuso di autorità, in relazione al sovraffollamento carcerario. Potrebbe essere un’iniziativa da estendere, perché il carcere di Verona non è certo un’eccezione nel panorama degli istituti penitenziari italiani. "Il carcere di Verona doveva ospitare 251 detenuti, tollerabile un massimo di 472, ne ospita invece mediamente 850 nelle sezioni maschili e 70-80 nella sezione femminile – spiega l'avvocato Guariente Guarienti, firmatario della denuncia con il collega Fabio Porta -. In uno spazio di circa 12 metri quadrati vivono quattro persone, costrette a vivere in una gabbia ed alternarsi, due in piedi e due a letto, perché quattro non possono stare in piedi contemporaneamente; ognuno ha tre metri quadri a disposizione, una situazione quasi di tortura permanente". Per i legali "il ministro Alfano, al di là della sua responsabilità politica, deve essere indagato anzitutto per violazione dell’articolo 572, maltrattamenti in danno a persone affidate alla custodia, e 608, abuso di autorità nei confronti dei detenuti". "Non si possono imputare queste condizioni ai direttori delle carceri, ai giudici, agli agenti penitenziari e alle forze dell’ordine perché non possono influire sulle dimensioni delle celle – afferma Guarienti – la responsabilità fa capo al ministro che in tanti anni non ha provveduto a modificare la situazione per almeno ridurre la sofferenza dei detenuti".

   L'Italia, ricorda ancora, è già stata condannata dalla Corte Europea – che ha specificatamente parla di "trattamenti disumani e degradanti" – a risarcire un detenuto bosniaco per non avergli concesso lo spazio minimo sostenibile di 7 metri quadri a persona, come stabilito dal comitato europeo per la prevenzione della tortura.
   Ha qualcosa da dire il ministro della Giustizia?
   Quarta notizia. Da Bologna. Il carcere della Dozza “scoppia”, come tanti altri. Vi si trovano stipati 1.200 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 490 posti. Situazione resa ancora più insopportabile dal fatto che solo un detenuto su cento (dodici in tutto) riesce a uscire con un permesso di lavoro. "Delle quasi 1.200 persone presenti all'interno della casa circondariale della Dozza, circa un migliaio presentano richiesta di svolgere lavori." La “notizia” viene da Massimo Ziccone, responsabile educativo della Casa Circondariale della Dozza, che ricorda come cinque anni fa fossero sessanta. Nonostante il lavoro sia uno dei capisaldi del percorso rieducativo, a partire dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, che stabilisce che "negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione al lavoro e la partecipazione a corsi di formazione professionale", il numero di quelli che riescono effettivamente a ottenere un impiego, sebbene per brevi turni o a tempo parziale, resta veramente molto basso. Dei 12 ammessi al lavoro esterno, 6 sono detenuti a pieno titolo, mentre la restante metà è ammessa al lavoro esterno sulla base dello status di semilibero, una figura prevista dall’articolo 48 dell’ordinamento penitenziario proprio per permettere a chi è ammesso a tale particolare regime di "partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale".

   È da credere che la situazione del carcere della Dozza non sia una peculiarità, un caso isolato. È da credere che quello che accade a Bologna accada un po’ ovunque. Il ministro della Giustizia potrebbe dedicare un po’ del suo tempo per cercare di capire come, perché e per responsabilità di chi, può accadere quello che abbiamo appena descritto, e cercare di porvi rimedio?
   Quinta notizia. Non sembra ne abbia parlato nessuno, eppure poteva essere la buona occasione per avviare una riflessione e un dibattito di cui c’è necessità.
Al Giffoni Film Festival è stato presentato un film “King of Devil’s Island” che racconta l’inferno del carcere minorile. Il film, tratto da una scioccante storia vera, che ricorda lo “Sleepers” di Brad Pitt, Kevin Bacon e Jason Patric, è ambientato nella Norvegia dell’inizio ‘900, storie di giovani che si struggono per riprendersi la propria libertà e sfuggire all’impietosa violenza che regna sull’infernale isola-prigione in cui si trovano a scontare la propria pena. Vittime di abusi mentali e fisici da parte un regime oppressivo e sadico esercitato dalle guardie e dal direttore della prigione, i ragazzi trovano sostegno e speranza soltanto tra di loro. Un giorno, un nuovo detenuto, Erling, di 17 anni, progetta un piano per scappare dall’isola. Dopo un tragico incidente, Erling finisce per segnare i destini dei suoi compagni, guidando una violenta rivolta. I ragazzi riescono ad assumere il controllo della prigione, ma 150 soldati vengono inviati per ristabilire l’ordine.
   Se ne raccomanda la visione a tutti, ministro della Giustizia e dell’Interno in particolare.
 

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