Articolo 21 - ESTERI
Onu, un voto per la pace
di Riccardo Cristiano
L’ultima volta che si è parlato di processo di pace risale a diverso tempo fa, gli americani chiesero a Israele altri tre mesi di sospensione dei programmi di colonizzazione nei territori palestinesi, ottennero un rifiuto e il negoziato si arenò. Da allora molti hanno detto che Netanyahu non vuole la pace e quindi i palestinesi non hanno altre opzioni che ricorrere al voto dell’Onu. Ma uno potrebbe obiettare: Netanyahu non sarà eterno, si aspettino le elezioni e nel caso emerga dal voto un governo di orientamento diverso…. Ma non è così semplice.
C’erano un volta la pace, la guerra, l’armistizio. Poi qualcuno ha inventato il “processo di pace”. Ovviamente anche questa invenzione, come tutte le altre, può essere utile, tutto dipende da come la si usa. Il processo di pace dovrebbe consentire un cammino progressivo verso la soluzione concordata dei conflitti anche quando non si ha ancora a portata di mano una piena soluzione delle dispute. E’ il cosiddetto “circolo virtuoso”.
Il processo di pace israelo-palestinese è stato costruito proprio così. “Non avendo ancora un accordo su tutto costruiamo le condizione della fiducia reciproca per rendere poi irreversibile la scelta della pace, sciogliendo i nodi ancora insolubili con la forza dei dividendi della pace”. Questa era l’idea forte.
Purtroppo questo meccanismo non ha funzionato. I falchi dall’una e dall’altra parte l’hanno avversata in tutti i modi possibili immaginabili. Prendiamo i terroristi: per anni sono andati in letargo fino al momento giusto. Israele doveva fare una “concessione” (come si ama dire, mai “rispettare un impegno preso” ) ? In quel momento, puntualissimo, arrivava l’attentato.
Dall’altra parte i governi di destra in Israele hanno proclamato che la pace si fa solo negoziando, ma non hanno mai voluto negoziare alcunché: e dato che le carte le hanno tutte in mano loro (terra, acqua, Gerusalemme) la loro idea idea di fondo è sempre stata quella di sterilizzare il processo di pace portandolo avanti ma senza mai “concedere” alcunché, e nel frattempo conquistare altro territorio con la colonizzazione.
Se dietro a questa politica c’è una visione ( una vecchia canzone della destra sionista comincia dicendo “il fiume Giordano ha due sponde, una è nostra e l’altra pure) anche dietro al terrorismo c’è una visione; non si tratta di terrorismo “della disperazione” se così si vuol dire. Dietro il terrorismo c’è l’opzione iraniana, cioè la confisca della questione palestinese da parte di Tehran per conquistare il mondo arabo, imporre l’egemonia khomeinista. Il terrorismo ha puntato a radicalizzare Israele, per distruggere le possibilità di soluzione negoziata del problema palestinese. Se Yigal Amir ha ucciso Rabin per uccidere la sua politica e favorire quelle dei suoi oppositori israeliani, le brigate Ezzedin al-Qassam e Hezbollah hanno sabotato la strategia negoziale di Yasser Arafat, espropriando i palestinesi della loro questione nazionale e puntando su un “o con noi o con l’Israele” che ha messo in crisi qualsiasi politica riformista nel mondo arabo. Gli opposti estremismi si sono ovviamente sostenuti vicendevolmente: più le politiche israeliane si facevano estreme più gli iraniani ne beneficiavano, e appena un leader israeliano prvava qualche timida apertura (vedi Olmert) il terrorismo tornava a uccidere e lo fermava.
Bisogna dare atto all’oscuro Abu Mazen di non aver mai esistato con i fautori dell’opzione iraniana, ma il totale fallimento dell’amministrazione Obama a sostenerlo con pur minimi risultati nel negoziato lo ha costretto, per non essere travolto, alla mossa “voto all’Onu.” Ora, casualmente, accade che questa mossa si trovi a coincidere con il grande cambiamento determinato dalla primavera araba. E’ un caso, l’idea di Abu Mazen è nata prima della primavera, ma questo caso oggi è un fatto. E oggi nel Medio Oriente l’egemonia iraniana è stata incrinata proprio dalla primavera ed è emerso un nuovo protagonismo, quello turco, che cerca di interpretare questa primavera affermando un’agenda fatta di “diritti e democrazia”. Erdogan non manda attentatori suicidi a combatere Israele, non nega il diritto ad esistere dello stato ebraico.Il voto all’Onu può finire col rappresentare un oggettivo rafforzamento dell’opzione turca che ormai sa di avere lo stesso destino della primavera araba ( Erdogan a differenza di Ahmadinejad non ha minoranze turcofone per creare il partito “filo-turco”, non potrà nè islamizzare nè “turchizzare” la questione palestinese, il suo softpower si chiama sviluppo economico e interlocuzione con l0′Occidente) . Allora il voto all’Onu potrà rafforzarlo solo se dimostrerà che l’intifada pacifica dei diplomatici è capace di rimettere in sintonia la questione palestinese con il mondo.
Il sì penalizzerebbe Tehran e premierebbe Ankara anche perchè sarebbe implicito accanto al riconoscimento mondiale dello stato palestiense anche il riconoscimento arabo dello stato d’Israele. Due stati che nascerebbero da altrettanti voti dell’Onu. Ma non si traterebbe solo di un fatto solo simbolico. Il più grande cambiamento riguardarebbe gli “insediamenti colonici ebraici in territori palestinesi”, cioè una delle più grandi spine del processo di pace. Non sarebbero più in territori “contesi”, con tutto quel che ne potrebbe conseguire.
C’erano un volta la pace, la guerra, l’armistizio. Poi qualcuno ha inventato il “processo di pace”. Ovviamente anche questa invenzione, come tutte le altre, può essere utile, tutto dipende da come la si usa. Il processo di pace dovrebbe consentire un cammino progressivo verso la soluzione concordata dei conflitti anche quando non si ha ancora a portata di mano una piena soluzione delle dispute. E’ il cosiddetto “circolo virtuoso”.
Il processo di pace israelo-palestinese è stato costruito proprio così. “Non avendo ancora un accordo su tutto costruiamo le condizione della fiducia reciproca per rendere poi irreversibile la scelta della pace, sciogliendo i nodi ancora insolubili con la forza dei dividendi della pace”. Questa era l’idea forte.
Purtroppo questo meccanismo non ha funzionato. I falchi dall’una e dall’altra parte l’hanno avversata in tutti i modi possibili immaginabili. Prendiamo i terroristi: per anni sono andati in letargo fino al momento giusto. Israele doveva fare una “concessione” (come si ama dire, mai “rispettare un impegno preso” ) ? In quel momento, puntualissimo, arrivava l’attentato.
Dall’altra parte i governi di destra in Israele hanno proclamato che la pace si fa solo negoziando, ma non hanno mai voluto negoziare alcunché: e dato che le carte le hanno tutte in mano loro (terra, acqua, Gerusalemme) la loro idea idea di fondo è sempre stata quella di sterilizzare il processo di pace portandolo avanti ma senza mai “concedere” alcunché, e nel frattempo conquistare altro territorio con la colonizzazione.
Se dietro a questa politica c’è una visione ( una vecchia canzone della destra sionista comincia dicendo “il fiume Giordano ha due sponde, una è nostra e l’altra pure) anche dietro al terrorismo c’è una visione; non si tratta di terrorismo “della disperazione” se così si vuol dire. Dietro il terrorismo c’è l’opzione iraniana, cioè la confisca della questione palestinese da parte di Tehran per conquistare il mondo arabo, imporre l’egemonia khomeinista. Il terrorismo ha puntato a radicalizzare Israele, per distruggere le possibilità di soluzione negoziata del problema palestinese. Se Yigal Amir ha ucciso Rabin per uccidere la sua politica e favorire quelle dei suoi oppositori israeliani, le brigate Ezzedin al-Qassam e Hezbollah hanno sabotato la strategia negoziale di Yasser Arafat, espropriando i palestinesi della loro questione nazionale e puntando su un “o con noi o con l’Israele” che ha messo in crisi qualsiasi politica riformista nel mondo arabo. Gli opposti estremismi si sono ovviamente sostenuti vicendevolmente: più le politiche israeliane si facevano estreme più gli iraniani ne beneficiavano, e appena un leader israeliano prvava qualche timida apertura (vedi Olmert) il terrorismo tornava a uccidere e lo fermava.
Bisogna dare atto all’oscuro Abu Mazen di non aver mai esistato con i fautori dell’opzione iraniana, ma il totale fallimento dell’amministrazione Obama a sostenerlo con pur minimi risultati nel negoziato lo ha costretto, per non essere travolto, alla mossa “voto all’Onu.” Ora, casualmente, accade che questa mossa si trovi a coincidere con il grande cambiamento determinato dalla primavera araba. E’ un caso, l’idea di Abu Mazen è nata prima della primavera, ma questo caso oggi è un fatto. E oggi nel Medio Oriente l’egemonia iraniana è stata incrinata proprio dalla primavera ed è emerso un nuovo protagonismo, quello turco, che cerca di interpretare questa primavera affermando un’agenda fatta di “diritti e democrazia”. Erdogan non manda attentatori suicidi a combatere Israele, non nega il diritto ad esistere dello stato ebraico.Il voto all’Onu può finire col rappresentare un oggettivo rafforzamento dell’opzione turca che ormai sa di avere lo stesso destino della primavera araba ( Erdogan a differenza di Ahmadinejad non ha minoranze turcofone per creare il partito “filo-turco”, non potrà nè islamizzare nè “turchizzare” la questione palestinese, il suo softpower si chiama sviluppo economico e interlocuzione con l0′Occidente) . Allora il voto all’Onu potrà rafforzarlo solo se dimostrerà che l’intifada pacifica dei diplomatici è capace di rimettere in sintonia la questione palestinese con il mondo.
Il sì penalizzerebbe Tehran e premierebbe Ankara anche perchè sarebbe implicito accanto al riconoscimento mondiale dello stato palestiense anche il riconoscimento arabo dello stato d’Israele. Due stati che nascerebbero da altrettanti voti dell’Onu. Ma non si traterebbe solo di un fatto solo simbolico. Il più grande cambiamento riguardarebbe gli “insediamenti colonici ebraici in territori palestinesi”, cioè una delle più grandi spine del processo di pace. Non sarebbero più in territori “contesi”, con tutto quel che ne potrebbe conseguire.
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