di Lorenzo Frigerio
Non si sono ancora spente le polemiche, seguenti alla testimonianza rilasciata tre giorni fa dal Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, sulla esistenza di una trattativa vera e propria tra mafia e istituzioni ed ecco un nuovo capitolo si aggiunge alla intricata ricostruzione dei fatti cruciali per il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica: la stagione delle stragi a Palermo nel 1992 e nel resto del Paese l’anno dopo e la nuova fase di coabitazione tra Cosa Nostra e lo Stato avviata proprio in seguito all’eliminazione di Falcone e Borsellino.
Tra le tante repliche alle affermazioni di Grasso, da segnalare la dura presa di posizione del fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio, Salvatore Borsellino: “Se è vero che la trattativa può aver salvato la vita a qualche politico, è vero che il patto è stato barattato con la vita di Paolo Borsellino. Questo tipo di affermazione mi sconvolge”.
Ieri invece i riflettori sono tornati ad accendersi sul prefetto Mario Mori. In silenzio per tutte queste settimane, durante le quali il suo nome è rimbalzato sulle prime pagine dei quotidiani e nei titoli dei telegiornali, Mori sceglie la IV sezione del Tribunale di Palermo per raccontare la sua verità circa i colloqui avuti con Vito Ciancimino, quando era ancora ufficiale del ROS dei carabinieri.
E sceglie di farlo nel corso delle dichiarazioni spontanee rese nel processo in cui si trova a dover fronteggiare l’accusa di favoreggiamento aggravato in favore di uno dei capi dei capi di Cosa Nostra: il boss è Bernardo Provenzano, l’anno è il 1995 e Mori e il colonnello Mauro Obinu avrebbero evitato di stringere il cerchio intorno al boss corleonese, pur potendolo fare quasi a colpo sicuro, rinviando la cattura per non precisati fini investigativi.
Mori non nega di avere avuto più di una occasione di incontro con Vito Ciancimino, ancora influente nonostante il suo ritiro dalla vita politica, ma rifiuta invece in modo categorico la ricostruzione dei fatti operata in queste ultime settimane, senza ricorrere a perifrasi fumose: “Ogni trattativa del genere e questa in particolare che implicava una resa vergognosa dello stato a una banda di criminali assassini sarebbe stata impensabile”.
Anzi, a suo dire, la prova della mancanza di un accordo di qualsivoglia genere con la mafia verrebbe paradossalmente proprio dagli incontri avuti con Ciancimino. L’ex comandante del ROS ed ex direttore del SISDE non esita nel dichiarare che tenne nella circostanza difficile un comportamento di “massima trasparenza”, non dando mai adito all’idea che da parte dello Stato ci potesse essere spazio alcuno per un qualsiasi cedimento di fronte alle richieste criminali.
Mori decide di rompere il silenzio fin qui osservato e lo fa al termine della deposizione resa davanti alla medesima corte da parte di Luciano Violante, ex presidente della Camera dei Deputati ed ex presidente della Commissione parlamentare antimafia: “Una trattativa, per sua natura, deve essere riservata, presuppone il rispetto del segreto. Io parlai dei miei incontri con Ciancimino prima con Violante, allora presidente dell'Antimafia, poi con Caselli, che si era appena insediato al vertice della Procura di Palermo”.
L’ex prefetto ed ex generale ci tiene innanzitutto a sottolineare che Violante non smentisce quanto da lui riferito in più circostanze, seppure i ricordi di quest’ultimo siano alquanto lacunosi al riguardo: Ciancimino aveva chiesto di essere ascoltato dalla Commissione antimafia e la richiesta fu avanzata dallo stesso Mori a Violante nel corso di tre incontri avuti con l’ex presidente dell’antimafia.
Non potrebbe essere forse questa richiesta la prova che Ciancimino chiedeva a Mori circa la sua legittimità ad avviare la trattativa in nome e per conto dello Stato? Al momento non è dato di rispondere a questa domanda con certezza.
Secondo quanto invece ipotizza ancora oggi Violante, all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, Ciancimino avrebbe avuto intenzione di fare rivelazioni sul rapporto tra Cosa Nostra e corrente andreottiana in Sicilia, forse con la speranza non dichiarata di ottenere benefici processuali o materiali, visto che all’epoca alcuni dei suoi ingenti beni erano stati sequestrati e la magistratura palermitana doveva stabilire l’esito della misura cautelare. Alla fine non si arriva all’audizione in sede parlamentare, nonostante la comunicazione fatta da Violante all’ufficio di presidenza della Commissione, perché scattano le manette ai polsi dell’ex sindaco di Palermo.
La magistratura palermitana all’epoca non viene comunque informata della richiesta di audizione perché, stando a quanto Violante riferisce in aula, Mori valuta la richiesta di Ciancimino in termini di “affari politici”, affari sui quali, evidentemente a giudizio dell’allora colonnello dei ROS, non vi può essere alcuna competenza dei giudici.
Nel corso delle dichiarazioni spontanee, Mori ricostruisce anche il quadro complessivo di quell’anno, compreso il periodo antecedente le stragi, parlando dell’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima, degli sforzi investigativi messi in campo dagli uomini del ROS nell’inchiesta mafia-appalti che si stava portando avanti con molta fatica, perché priva del sostegno dovuto dalla Procura di Palermo. A proposito di questa inchiesta Mori rammenta la diversa valutazione che Borsellino e Falcone ne davano, riconoscendo l’assoluto valore della ricostruzione operata dai carabinieri per quanto concerne i rapporti tra mafia, politica ed imprenditoria, non solo locale. Di questo avrebbe parlato il 25 giugno del 1992 quando, in compagnia del capitano De Donno, si incontra con Borsellino all’interno della caserma Carini a Palermo. Un rapporto di stima e collaborazione che continua, secondo Mori, fino alla strage del 19 luglio. Questa frequenza di contatti e l’assoluta sintonia sull’operatività quotidiana testimoniano della assoluta fiducia di cui il magistrato assassinato da Cosa Nostra lo avrebbe gratificato in vita e fino a poco prima di morire.
Dopo aver ascoltato Violante e Mori, i giudici sentono anche l’altro figlio di Vito Ciancimino, Giovanni, che ricorda di quando il padre, all’indomani della strage di Capaci, gli disse di essere stato contattato da “personaggi altolocati” per avere una interlocuzione con “l’altra sponda”. Non ci fu bisogno, a suo dire, di precisare in alcun modo cosa si intendesse per “altra sponda” essendo certo che si trattasse del vertice di Cosa Nostra, mentre per quanto concerne i “personaggi altolocati” Giovanni Ciancimino esclude un possibile riferimento al solo Mori.
Tra i ricordi portati in aula dal figlio dell’ex politico democristiano, anche la richiesta del padre, vista la sua conoscenza delle leggi in quanto avvocato di professione, di avere spiegate le condizioni per cui è possibile la revisione di una sentenza. Non dimentichiamo, infatti, che uno dei punti del “papello” era proprio il ribaltamento dell’esito del primo maxiprocesso alle cosche istruito dal pool di Palermo. In quella circostanza, a spiegazione ultimata, a Giovanni Ciancimino sembra di cogliere la soddisfazione del padre, convinto della possibile revisione di una sentenza così difficile da digerire per il gotha di Cosa Nostra da scatenare una stagione di vendette e sangue.
Nel gennaio del 1993, Giovanni Ciancimino si reca in carcere per visitare il padre e lo trova visibilmente affranto. “Mi hanno tradito, mi hanno venduto”: queste le poche parole che l’ex politico democristiano formula in quell’occasione.
In attesa delle prossime rivelazioni sulla trattativa tra mafia e Stato, sarebbe interessante capire a chi si riferiva Ciancimino allora.
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