di Vincenzo Vita, Paolo Nerozzi
Note a margine del Seminario di Roma, lunedì 24 ottobre 2011
Una considerazione generale. E’ in corso una rivincita dell’ideologia, da non intendere forse come il sistema di pensiero chiuso degli ultimi due/tre secoli, ma certo come ossessiva reiterazione dell’ ’idea’. E l’idea prevalente è che la crisi sia dovuta al debito pubblico. Come in tutte le ideologie c’è del vero. Ma è solo – cantilena dominante- un pezzetto del mosaico. La tela è assai più ampia. Segnata e percorsa dalla crisi del modello capitalistico prevalente, quello liberista degli ultimi trent’anni. La globalizzazione dei mercati e della produzione di merci, la fine del fordismo, la crescita dell’economia digitale fanno da sfondo: non cause forse, ma concause sì. L’effetto "forbice" – l’impoverimento dei ceti medi e popolari- è anche l’origine del collasso, insieme all’accumulazione delle ricchezze in pochissime mani. E l’oligarchia finanziaria, quella dei bond e dei subprime, ha reso evidente la crisi di un'intera era di sviluppo: dal capitale produttivo a quello speculativo.
Non si può accettare che la crisi sia descritta da un discorso omologato e omologante, con le stesse parole. Da troppi anni e con troppe subalternità. E’ fondamentale il linguaggio. Non è solo una questione semantica, ovviamente. E’ il riconoscimento che, se non si tratta di ideologie, siamo tuttavia nel vivo di una lotta di idee. All’impianto liberista e monetarista, tutto giocato sui ‘conti’, va contrapposto un approccio alternativo, che coordini e orienti le tante iniziative di lotta e le immerga in una nuova cultura di governo. Non è più sufficiente cercare di attenuare gli effetti delle spinte più dure. Non si può continuare a tenere ambigua la riflessione sulle privatizzazioni, a fronte della caduta della materia prima su cui esercitare le spinte proprietarie. Né è credibile oscillare sui temi essenziali dello Stato sociale. Il lavoro. Il lavoro dipendente è stata la vittima delle politiche liberiste in occidente e in Italia. Da ultimo, con l’articolo 8 della manovra economica contro il quale si è immaginato da parte di tanti il ricorso al referendum abrogativo. E per finire l'attacco alle pensioni.
Ancora: il taglio violento dei saperi ha il sapore dell’anestesia ‘totale’ su di una società che la destra populista vuole meno libera, meno colta, meno attrezzata a leggere la realtà e a partecipare alla vita democratica.
Ora, di fronte all’ultima accelerazione imposta dall’asse franco-tedesco sulle ‘riforme’ strutturali, la domanda diventa stringente: l’Italia è ancora uno Stato-nazione? La politica, al di là delle degenerazioni berlusconiane, c’è ancora? Come dimensione autonoma, s’intende.
Il berlusconismo, sottomarca della cultura di massa, ha reso ancor più pesante e greve la crisi. Ha contribuito in modo clamoroso ad esporre l’Italia agli attacchi speculativi, essendo la credibilità e l’affidabilità gli elementi cruciali della sfera pubblica. Oggi più di ieri.
L’alternativa riparte da un vigoroso rilancio del ‘pubblico’, inteso come il concerto dei beni comuni. E da un compiuto discorso redistributivo sulla tassazione progressiva patrimoniale. Tutto questo per scrivere un programma fondato su un’altra morfologia di sviluppo, di società e di valori costituenti la polis. Dall’ecologia, alla green economy, alla produzione digitale, alla ricerca e alla conoscenza.
Con nuovi soggetti collettivi. Con un centrosinistra rinnovato, con una "fase 2" del Partito democratico.
Sono intervenuti, tra gli altri, Claudio di Berardino, Piero Bevilacqua, Laura Pennacchi, Silvano Andriani, Gennaro Migliore, Enrico Gasbarra, Roberto Natale, Ettore Scola, Mauro Agostini, Roberto Della Seta, Roberto Di Giovan Paolo