di Federico Orlando
Ieri mattina, alternando l’ascolto della diretta sul voto di fiducia e uno sguardo al saggio di Bobbio Quale socialismo?, allegato al Corriere della sera, ci rendevamo conto di quanto avesse ragione il filosofo piemontese di sostenere che se il socialismo è difficile la democrazia è ancora più difficile. Tutti i vuoti nella manovra Monti, che ne hanno tarpato le ali e limitato lo slancio verso il risanamento morale oltre che finanziario del paese, ripropongono la fondamentale verità di cui non si parla o scrive. E cioè che il sistema parlamentare, una delle forme possibili della democrazia rappresentativa, la nostra forma, consente, sì, di prendere deliberazioni collettive attraverso rappresentanti eletti, “ma gli spazi che è riuscito ad occupare in una società articolata e multiforme sono molto pochi rispetto a quelli occupati da organizzazioni in cui le decisioni vengono prese autocraticamente. Si pensi a esercito, fabbrica, chiesa”, o – aggiungiamo – monopoli, oligopoli, corporazioni, lobbie, e altri orti conclusi: nei quali “il potere autocratico è molto più diffuso del potere democratico”. Della nostra società, il sistema parlamentare “occupa soltanto una piccola parte”. E’ per questo che Monti, sostenuto dalla stragrande maggioranza del parlamento, ha ammesso di non aver potuto pensare, nei brevi giorni della manovra, a certe cose che le mancano; e che, più duramente, Passera ha definito “pazzesche” le resistenze di fronte a cui il governo s’ è trovato, quando s’è accostato a spazi corporativi: non solo tassinari e farmacisti. Piccole e grandi bande organizzate, che riescono a tenere a bada la democrazia, se cerca di condurle sotto una condizione comune: per esempio, la condizione degli altri sessanta milioni di concittadini, chiamati a fare sacrifici per la salvezza di tutti, compresi gli assi portanti della conservazione reazionaria.
Perciò, ferma la nostra solidarietà al governo e alla sua prima manovra di risanamento del debito, l’auspicio è che una seconda manovra, stavolta di sviluppo, possa tener conto dei disertori di oggi. A cominciare dai grandi redditieri, per i quali non c’è stata vera patrimoniale. Dai grandi evasori cosiddetti scudati, che nelle democrazie potenti hanno pagato salatissimi conti alla società e nella nostra debole democrazia se la cavano elemosinandoci qualche centesimo. Dai corrotti – tutti i corrotti, e non solo quelli della casta parlamentare ma di tutte le altre caste, vedi San Raffaele o Finmeccanica – , da imbrigliare almeno con un codice delle incandidabilità. Dai mercanti di cannoni, come si chiamavano una volta e oggi di cacciabombardieri. Dagli ordini professionali, santuari di caste privilegiate e di rapina contro i clienti e contro gli stessi professionisti in lista d’attesa per entrare nel santuario. Da chi non paga l'Ici per diritto divino, chiesa in testa. Dalle nuove frequenze televisive, per le quali ci si aspettava un’asta miliardaria o una tassazione straordinaria a carico di chi se le vedrà invece scivolare nelle fauci come ostriche natalizie.
Qui, sulle frequenze, ci soffermiamo un po', anche in nome di quel principio della libertà di informare e di essere informati che è sacrosanto in tutte le democrazie e addirittura identificato con l’essenza della nazione, come Jefferson disse e volle per l’America. L'amico Giulietti ha chiesto al governo, nel dibattito a Montecitorio, perché si diano contributi diretti, sotto forma di frequenze, ai grandi gruppi, e si taglino in gran parte quelli alle piccole radio, alle piccole televisioni, ai giornali d’opinione: “Emittenti antimafia come Telejato, o Radio Siani, o radio Impastato, o giornali che resistono alla malavita (una delle cause maggiori del nostro disastro anche finanziario), rischiano la chiusura. Per loro non ci sarà contribuzione diretta, mentre per i forti permane. Non è accettabile. Eppure il presidente Napolitano aveva raccomandato di far attenzione a non incidere su un pluralismo già povero e sulla circolazione delle opinioni. Mentre il servizio pubblico è travolto da una crisi che rischia di coinvolgere centinaia di imprese”. Ora il governo ci scuserà se gli ricordiamo che tutte queste cose sono altrettanti “costi della politica”. Che quei costi non debbono essere elusi attraverso la mistificazione, cara ai “poteri forti”, di identificarli ed esaurirli nei costi della classe politica in senso stretto, anzi del parlamento e delle alte istituzioni.
Se fosse vivo Bobbio, credo che identificherebbe le diserzioni di tante aree della società “civile” dal sacrificio comune, con altrettante mine sulla via dello sviluppo della democrazia. Svilupparla – diceva il filosofo – significa estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive prese nelle sedi non parlamentari o non strettamente politiche: gli orti chiusi, appunto, che spesso sono latifondi. Abbiamo esteso il voto a tutti, fino a 18 anni, e su questa strada non si può andar oltre, a meno di voler mettere la scheda in mano ai ragazzini. “Il problema attuale dello sviluppo democratico non può più riguardare il 'chi' vota, ma il 'dove' si vota. E qui le tappe da percorrere sono ancora molte”. Su questo terreno ci giochiamo non il risanamento delle finanze, ma, appunto, la democrazia: tutte le manovre che richiedono sacrifici, nei quali l'”equità” è sempre relativa e lo scontento sempre certo, rischiano di creare per contraccolpo un blocco sociale reazionario, a cui i colpiti forniscono la massa, ma le zone chiuse e privilegiate, quelle dove bobbianamente non arriva la democrazia, forniscono la guida. Così ieri è nato Mussolini e oggi può rinascere Berlusconi. Il quale, definendo il fascismo “una democrazia minore”, si candida a reinterpretarlo. E' una corsa a chi arriva prima. Se Monti con la manovra di sviluppo sfonderà gli orti chiusi, vi porterà e quindi rafforzerà la democrazia. Se non ci riesce, rischiamo un altro regime dei fasci e delle corporazioni. Cosiddetto “minore”.