Articolo 21 - INTERNI
La rete dei Comuni per i beni comuni
di Paolo Cacciari
E’ nata la rete dei comuni per i beni comuni. Dal basso e dal sud. E forse non è un caso. Promotori e garanti i sindaci di Napoli, Bari, Cagliari e il presidente della Puglia. Battesimo di folla, sabato scorso, al teatro Politeama, gremito di amministratori locali, ma soprattutto di associazioni, comitati, gruppi di cittadinanza attiva che in ogni parte di Italia costituiscono quella galassia di movimenti che uno studioso americano (Paul Hawken) ebbe a definire “moltitudine irrequieta”, unico antidoto alla crisi di civiltà che sta attraversando l’emisfero occidentale. De Magistris in conclusione ha voluto nominare i più noti: Forum dell’acqua, No Tav, No Dal Molin, Chiaiano e anti-inceneritori, No Ponte, Teatro Valle, ma anche donne sempre più discriminate e relegate nel lavoro domestico disconosciuto, operai colpiti nei diritti sindacali alla Fiat e non solo, giovani precari, immigrati.
Bussola puntata sui beni comuni. Una nozione che comincia ad avere un consistente spessore teorico (grazie ai lavori di giuristi della “scuola” di Rodotà) oltre che una facile percezione di massa. Si pensi ai commons movements che in questi giorni sono di nuovo impegnati contro i tentativi dei motori di ricerca di filtrare internet. Beni comuni a vocazione sociale, indispensabili e insostituibili, funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone. Categorie dell’essere (se stessi in connessione con gli altri) e non dell’avere, del possedere, dell’accumulare, del competere. In molti pensano che il nuovo paradigma dei beni comuni possa essere capace di fare riprendere il largo alla flottiglia delle tante (troppe, secondo alcuni) aggregazioni che fanno riferimento alla sinistra, all’ambientalismo, alla società civile. Molti altri pensano che i beni comuni possano avere la forza di superare gli stereotipi tradizionali di destra e sinistra, perché supera la dicotomia tra pubblico e privato, tra stato e mercato, tra sovranità statuale e proprietà privata (Ugo Mattei l’ha scritto nel suo Beni comuni. Un manifesto, Laterza, 2011). Ci sarà da ragionare (si pensa già ad una “festa dei beni comuni” in primavera a Bari), ma a partire dalle esperienze concrete di riconoscimento di massa dei beni comuni, di vertenzialità “conflittuale e gioiosa” per sottrarli alle logiche perverse del mercato, di gestione alternativa partecipata “non profit”, stabilendo tanto il diritto all’accesso, quanto il dovere civico di prendersi cura di loro.
L’avvenimento di Napoli può essere letto in vari modi. L’inizio di una sacrosanta mobilitazione a difesa dei comuni contro il taglio dei trasferimenti finanziari, un “patto di disubbidienza contro il patto di stabilità” (Realfonzo) e alle norme anti-costituzionali che impongono la dismissione forzata e la privatizzazione obbligatoria dei servizi pubblici locali, anche quelli che non provocano deficit ma creano benessere e coesione nelle comunità locali (Massimo Zedda). Un “patto federativo” tra comuni per far rispettare i risultati del referendum e per lanciare una Carta europea per i beni comuni. L’avvio di laboratori urbani e metropolitani, in tutta Europa (Vendola), comuni tra amministratori e movimenti per sperimentare un nuovo modo di governare più democratico perché più e meglio connesso ai cittadini informati, consapevoli, critici (Paul Ginsbourg). Cominciando a modificare gli statuti comunali per cambiare in profondità i processi decisionali. Il lancio di una proposta politica a tutto campo, un “progetto politico per cambiare non solo i municipi, ma il paese” (De Magistris), liberandolo dall’asfissiante monopolio della rappresentanza esercitato da partiti sempre più prigionieri dei ricatti dei gestori della grande finanza. Fino ad immaginare già per la prossima scadenza elettorale nazionale del 2013 la creazione di un soggetto politico radicalmente nuovo nelle forme e nelle modalità d’azione. Insomma una rivoluzione che non ha paura di essere e di dichiararsi tale. Una aggregazione non per sommatoria delle formazioni politiche esistenti (De Magistris), libera dalla malattia del leaderismo (Alberto Lucarelli), libera dalla dominazione maschile (Nicoletta Perotta), capace di mobilitare i desideri (Emiliano) e di creare un po’ di entusiasmo, che non va mai male.
Bussola puntata sui beni comuni. Una nozione che comincia ad avere un consistente spessore teorico (grazie ai lavori di giuristi della “scuola” di Rodotà) oltre che una facile percezione di massa. Si pensi ai commons movements che in questi giorni sono di nuovo impegnati contro i tentativi dei motori di ricerca di filtrare internet. Beni comuni a vocazione sociale, indispensabili e insostituibili, funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone. Categorie dell’essere (se stessi in connessione con gli altri) e non dell’avere, del possedere, dell’accumulare, del competere. In molti pensano che il nuovo paradigma dei beni comuni possa essere capace di fare riprendere il largo alla flottiglia delle tante (troppe, secondo alcuni) aggregazioni che fanno riferimento alla sinistra, all’ambientalismo, alla società civile. Molti altri pensano che i beni comuni possano avere la forza di superare gli stereotipi tradizionali di destra e sinistra, perché supera la dicotomia tra pubblico e privato, tra stato e mercato, tra sovranità statuale e proprietà privata (Ugo Mattei l’ha scritto nel suo Beni comuni. Un manifesto, Laterza, 2011). Ci sarà da ragionare (si pensa già ad una “festa dei beni comuni” in primavera a Bari), ma a partire dalle esperienze concrete di riconoscimento di massa dei beni comuni, di vertenzialità “conflittuale e gioiosa” per sottrarli alle logiche perverse del mercato, di gestione alternativa partecipata “non profit”, stabilendo tanto il diritto all’accesso, quanto il dovere civico di prendersi cura di loro.
L’avvenimento di Napoli può essere letto in vari modi. L’inizio di una sacrosanta mobilitazione a difesa dei comuni contro il taglio dei trasferimenti finanziari, un “patto di disubbidienza contro il patto di stabilità” (Realfonzo) e alle norme anti-costituzionali che impongono la dismissione forzata e la privatizzazione obbligatoria dei servizi pubblici locali, anche quelli che non provocano deficit ma creano benessere e coesione nelle comunità locali (Massimo Zedda). Un “patto federativo” tra comuni per far rispettare i risultati del referendum e per lanciare una Carta europea per i beni comuni. L’avvio di laboratori urbani e metropolitani, in tutta Europa (Vendola), comuni tra amministratori e movimenti per sperimentare un nuovo modo di governare più democratico perché più e meglio connesso ai cittadini informati, consapevoli, critici (Paul Ginsbourg). Cominciando a modificare gli statuti comunali per cambiare in profondità i processi decisionali. Il lancio di una proposta politica a tutto campo, un “progetto politico per cambiare non solo i municipi, ma il paese” (De Magistris), liberandolo dall’asfissiante monopolio della rappresentanza esercitato da partiti sempre più prigionieri dei ricatti dei gestori della grande finanza. Fino ad immaginare già per la prossima scadenza elettorale nazionale del 2013 la creazione di un soggetto politico radicalmente nuovo nelle forme e nelle modalità d’azione. Insomma una rivoluzione che non ha paura di essere e di dichiararsi tale. Una aggregazione non per sommatoria delle formazioni politiche esistenti (De Magistris), libera dalla malattia del leaderismo (Alberto Lucarelli), libera dalla dominazione maschile (Nicoletta Perotta), capace di mobilitare i desideri (Emiliano) e di creare un po’ di entusiasmo, che non va mai male.
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