Articolo 21 - INTERNI
"Io non ci sto!" A Monti e al capitalismo irresponsabile, nemici dell'Art. 18
di Gianni Rossi
Mario Monti è un uomo fortunato. Economista liberista, fervente cattolico, già rettore della più prestigiosa Università privata del paese, la Bocconi, già a capo del più esclusivo club italiano di “think tank”, l’Aspen Institute, editorialista di spicco del maggiore quotidiano della borghesia “meneghina”, il Corriere della Sera, a lungo Commissario europeo e vicepresidente della Commissione stessa. Uomo colto, pacato, a suo modo ironico, dai modi eleganti e straordinariamente ricco per i suoi meriti professionali. Monti è anche un esponente di spicco della Destra tecnocratica, espressione del “neocapitalismo compassionevole”, quello che a volte si pone in posizione conflittuale con altri “poteri forti” rappresentati dagli iperliberisti, i monetaristi alla Friedman (la Scuola di Chicago tanto cara un tempo a Reagan e Thatcher, oggi alla Merkel e Sarkozy), gli ambienti della finanza esasperata. Un critico del capitalismo “rampante” che ci sta portando diritti verso la Depressione economica.
Eppure, Monti non riesce a divincolarsi dall’ideologia del capitalismo dominante, seppure al tramonto. Lo dimostrano le sue posizioni ideologiche contro il lavoro stabile e sulla difficile e contrastata trattativa con i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro, con la strenua volontà di abbattere l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E’ arrivato anche a sproloquiare in TV sul bello della flessibilità e della mobilità, rispetto al “posto fisso” (visto come grigio destino da “travet” del Catasto), promettendo di abbattere il “Tabù dell’Articolo 18”, a suo parere responsabile anche dell’allontanamento degli investimenti esteri in Italia. Peccato che da economista abbia dimenticato le statistiche e la storia dello sviluppo industriale dalla fine degli anni Sessanta (quando entrò in vigore lo Statuto dei Lavoratori) fino agli inizi del Duemila. Gli investimenti esteri, dalle multinazionali americane alle grandi e medie società europee (tedesche, inglesi e francesi) erano di casa allora in Italia, usufruivano delle prebende della Cassa per il Mezzogiorno, aiutavano il nostro paese a svilupparsi anche tecnologicamente, creavano posti di lavoro. Ed hanno sempre rispettato l’Articolo 18, mentre si lamentavano giustamente della lentezza della giustizia civile, della burocrazia pubblica e dell’infedeltà fiscale dei concorrenti locali. Finito il “magna, magna” della Cassa per il Mezzogiorno e pressati dalle esose richieste di tangenti da parte di malavita organizzata e mondo politico “affamato”, gli stranieri hanno iniziato ad abbandonare l’Italia. E la fuga continua ancora.
L’Articolo 18 non ha mai pesato sulle ristrutturazioni aziendali, le chiusure di stabilimenti né sulle delocalizzazioni. Invece, i veri tre mali italiani (giustizia civile, burocrazia evasione fiscale) sono ancora ben radicati e nessuno sembra capace di estirparli, neppure il “governo dei tecnici”; mentre sull’Articolo18 si è levato un “fumus persecutionis” mediatico che va dai giornali di destra ai progressisti (capofila Corriere e Repubblica). E’ la causa di tutti i mali: disoccupazione, precarietà, bassi salari, deficit pubblico, crisi industriale, fuga dei capitali stranieri,ecc. Ma costoro mentono, sapendo di mentire.
“Io no ci sto!”, avrebbe detto con fierezza il compianto Presidente della Repubblica Scalfaro, fiutando l’inganno. In realtà, la crisi inizia dagli Stati Uniti, emigra in Gran Bretagna e si radicalizza nel resto dell’Europa, trasformandosi da finanziaria in crisi industriale, in Recessione economica, aggravata dai deficit dei conti pubblici. Dapprima, i governi rifinanziano le banche e le grandi imprese con i soldi pubblici, senza contropartite e senza “tagliare le teste” dei supermanager né applicando nuove leggi comunitarie (come la Tobin Tax, gli Eurobond, un’Agenzia di Rating europea indipendente, la responsabilità sociale del management, l’armonizzazione fiscale dell’Unione, nuove e più pressanti regole antitrust e anti-conflitti di interessi). Poi, si inaspriscono i sistemi fiscali per drenare danaro privato e così colmare i deficit statali, disarticolando il sistema di protezioni: welfare state, assistenza sanitaria, educazione pubblica, diritti sindacali.
Insomma, si prolunga l’agonia del sistema neocapitalistico, colpendo le conquiste sociali di oltre un secolo, specie quelle che avevano reso le masse lavoratrici, dal Secondo Dopoguerra in poi, protagoniste dei cambiamenti democratici e dello sviluppo economico.
E gli imprenditori ? Cosa fanno per salvare le loro aziende, i posti di lavoro, l’economia dei loro paesi, la democrazia sociale? Il caso italiano è emblematico e a tratti degno di un trattato di psicanalisi, più che di un saggio di macroeconomia. Stando alle denunce anonime di imprenditori ancora legati al concetto di produttività e responsabilità etica del mondo del lavoro, i primi responsabili di questo stato di crisi industriale che sta mettendo in ginocchio il nostro paese, sono proprio quegli imprenditori, proprietari di aziende medie e grandi, che durante la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila hanno delocalizzato le loro imprese nell’Est Europa.
Da alcuni anni (con il beneplacito della Confindustria), le imprese che mietevano profitti nel Nord Est e nel resto della “Padania”, dopo aver delocalizzato nei vicini paesi dell’Est Europa, presi dall’ingordigia dei ricavi a scapito delle condizioni dei lavoratori e del sistema Italia, hanno spostato le loro attività in Cina, India e nel resto dell’Estremo Oriente. Condizioni di lavoro schiavistiche, manodopera e “cervelli” a basso costo, tassazioni di vantaggio. Con l’inganno legalizzato di costituire società miste in quei paesi, riescono a fatturare decine di miliardi di euro, sborsando poche tasse, e incassano enormi profitti che “imboscano” nelle banche locali, al riparo dal fisco italiano. Al loro posto, nei paesi dell’Europa orientale sono arrivati i cinesi, i coreani e gli indiani che hanno rilevato le loro aziende, in maniera compiacente, hanno formato società miste e, utilizzando i macchinari a tecnologia italiana avanzata, producono e vendono “made in Europe”, intascando anche i fondi europei. Altro che i weekend sotto i riflettori mediatici a Cortina, in via Condotti o nei locali della Movida milanese con le “Fiamme gialle” e i funzionari di Equitalia a controllare qualche centinaio di negozi e qualche decina di supercar, per fare “ammuina” e spaventare i contribuenti “infingardi”!
In Italia cresce la disoccupazione, il declino industriale è ormai una realtà, l’evasione e l’elusione fiscale ci condannano ad essere i primi al mondo. Il debito sovrano è alle stelle. E Monti con il suo governo della Destra tecnocratica si arroccano sull’Articolo 18 e la nuova flessibilità, magari un po’ meno schiavistica, ma comunque a vita.
Nella precedente crisi del 92-93 Ciampi, governatore BANKITALIA e presidente di un governo tecnico fece della Concertazione la “stella polare” della rinascita italiana dal baratro della crisi della Lira , contro i grandi apparati della Confindustria, così come il governo Prodi-Ciampi dovette battagliare sempre contro la Confindustria, la Confocommercio e la destra berlusconiana per far entrare il nostro paese nell’Euro.
Che memoria corta caro professor Monti! Mentre i sindacati, la sinistra, le parti sociali e il paese reale guardano all’Europa e ancora sperano di riportare il paese verso quegli standard, lei, Berlusconi e Bossi, il Terzo Polo e la Confindustria dilaniata al suo interno per l’elezione del successore alla Marcegaglia , virate verso le posizioni neoconservatrici, verso l’oscurantismo economico. Ecco i veri nemici dell’innovazione e dello sviluppo.
Io non ci sto! Ma con chi staranno gli Indignati, la sinistra, dal PD a tutti gli altri?
In materia di licenziamenti anche la flessibilita' non deve essere un tabu' - di Domenico d'Amati 18: l'articolo della (finta) discordia. Di nuovo sotto tiro. Senza ragione - di Vanna Palumbo
Eppure, Monti non riesce a divincolarsi dall’ideologia del capitalismo dominante, seppure al tramonto. Lo dimostrano le sue posizioni ideologiche contro il lavoro stabile e sulla difficile e contrastata trattativa con i sindacati sulla riforma del mercato del lavoro, con la strenua volontà di abbattere l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E’ arrivato anche a sproloquiare in TV sul bello della flessibilità e della mobilità, rispetto al “posto fisso” (visto come grigio destino da “travet” del Catasto), promettendo di abbattere il “Tabù dell’Articolo 18”, a suo parere responsabile anche dell’allontanamento degli investimenti esteri in Italia. Peccato che da economista abbia dimenticato le statistiche e la storia dello sviluppo industriale dalla fine degli anni Sessanta (quando entrò in vigore lo Statuto dei Lavoratori) fino agli inizi del Duemila. Gli investimenti esteri, dalle multinazionali americane alle grandi e medie società europee (tedesche, inglesi e francesi) erano di casa allora in Italia, usufruivano delle prebende della Cassa per il Mezzogiorno, aiutavano il nostro paese a svilupparsi anche tecnologicamente, creavano posti di lavoro. Ed hanno sempre rispettato l’Articolo 18, mentre si lamentavano giustamente della lentezza della giustizia civile, della burocrazia pubblica e dell’infedeltà fiscale dei concorrenti locali. Finito il “magna, magna” della Cassa per il Mezzogiorno e pressati dalle esose richieste di tangenti da parte di malavita organizzata e mondo politico “affamato”, gli stranieri hanno iniziato ad abbandonare l’Italia. E la fuga continua ancora.
L’Articolo 18 non ha mai pesato sulle ristrutturazioni aziendali, le chiusure di stabilimenti né sulle delocalizzazioni. Invece, i veri tre mali italiani (giustizia civile, burocrazia evasione fiscale) sono ancora ben radicati e nessuno sembra capace di estirparli, neppure il “governo dei tecnici”; mentre sull’Articolo18 si è levato un “fumus persecutionis” mediatico che va dai giornali di destra ai progressisti (capofila Corriere e Repubblica). E’ la causa di tutti i mali: disoccupazione, precarietà, bassi salari, deficit pubblico, crisi industriale, fuga dei capitali stranieri,ecc. Ma costoro mentono, sapendo di mentire.
“Io no ci sto!”, avrebbe detto con fierezza il compianto Presidente della Repubblica Scalfaro, fiutando l’inganno. In realtà, la crisi inizia dagli Stati Uniti, emigra in Gran Bretagna e si radicalizza nel resto dell’Europa, trasformandosi da finanziaria in crisi industriale, in Recessione economica, aggravata dai deficit dei conti pubblici. Dapprima, i governi rifinanziano le banche e le grandi imprese con i soldi pubblici, senza contropartite e senza “tagliare le teste” dei supermanager né applicando nuove leggi comunitarie (come la Tobin Tax, gli Eurobond, un’Agenzia di Rating europea indipendente, la responsabilità sociale del management, l’armonizzazione fiscale dell’Unione, nuove e più pressanti regole antitrust e anti-conflitti di interessi). Poi, si inaspriscono i sistemi fiscali per drenare danaro privato e così colmare i deficit statali, disarticolando il sistema di protezioni: welfare state, assistenza sanitaria, educazione pubblica, diritti sindacali.
Insomma, si prolunga l’agonia del sistema neocapitalistico, colpendo le conquiste sociali di oltre un secolo, specie quelle che avevano reso le masse lavoratrici, dal Secondo Dopoguerra in poi, protagoniste dei cambiamenti democratici e dello sviluppo economico.
E gli imprenditori ? Cosa fanno per salvare le loro aziende, i posti di lavoro, l’economia dei loro paesi, la democrazia sociale? Il caso italiano è emblematico e a tratti degno di un trattato di psicanalisi, più che di un saggio di macroeconomia. Stando alle denunce anonime di imprenditori ancora legati al concetto di produttività e responsabilità etica del mondo del lavoro, i primi responsabili di questo stato di crisi industriale che sta mettendo in ginocchio il nostro paese, sono proprio quegli imprenditori, proprietari di aziende medie e grandi, che durante la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila hanno delocalizzato le loro imprese nell’Est Europa.
Da alcuni anni (con il beneplacito della Confindustria), le imprese che mietevano profitti nel Nord Est e nel resto della “Padania”, dopo aver delocalizzato nei vicini paesi dell’Est Europa, presi dall’ingordigia dei ricavi a scapito delle condizioni dei lavoratori e del sistema Italia, hanno spostato le loro attività in Cina, India e nel resto dell’Estremo Oriente. Condizioni di lavoro schiavistiche, manodopera e “cervelli” a basso costo, tassazioni di vantaggio. Con l’inganno legalizzato di costituire società miste in quei paesi, riescono a fatturare decine di miliardi di euro, sborsando poche tasse, e incassano enormi profitti che “imboscano” nelle banche locali, al riparo dal fisco italiano. Al loro posto, nei paesi dell’Europa orientale sono arrivati i cinesi, i coreani e gli indiani che hanno rilevato le loro aziende, in maniera compiacente, hanno formato società miste e, utilizzando i macchinari a tecnologia italiana avanzata, producono e vendono “made in Europe”, intascando anche i fondi europei. Altro che i weekend sotto i riflettori mediatici a Cortina, in via Condotti o nei locali della Movida milanese con le “Fiamme gialle” e i funzionari di Equitalia a controllare qualche centinaio di negozi e qualche decina di supercar, per fare “ammuina” e spaventare i contribuenti “infingardi”!
In Italia cresce la disoccupazione, il declino industriale è ormai una realtà, l’evasione e l’elusione fiscale ci condannano ad essere i primi al mondo. Il debito sovrano è alle stelle. E Monti con il suo governo della Destra tecnocratica si arroccano sull’Articolo 18 e la nuova flessibilità, magari un po’ meno schiavistica, ma comunque a vita.
Nella precedente crisi del 92-93 Ciampi, governatore BANKITALIA e presidente di un governo tecnico fece della Concertazione la “stella polare” della rinascita italiana dal baratro della crisi della Lira , contro i grandi apparati della Confindustria, così come il governo Prodi-Ciampi dovette battagliare sempre contro la Confindustria, la Confocommercio e la destra berlusconiana per far entrare il nostro paese nell’Euro.
Che memoria corta caro professor Monti! Mentre i sindacati, la sinistra, le parti sociali e il paese reale guardano all’Europa e ancora sperano di riportare il paese verso quegli standard, lei, Berlusconi e Bossi, il Terzo Polo e la Confindustria dilaniata al suo interno per l’elezione del successore alla Marcegaglia , virate verso le posizioni neoconservatrici, verso l’oscurantismo economico. Ecco i veri nemici dell’innovazione e dello sviluppo.
Io non ci sto! Ma con chi staranno gli Indignati, la sinistra, dal PD a tutti gli altri?
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