di Marco Curatolo*
Li arrestarono in piena notte, il 20 giugno scorso. Si erano presentati a casa loro in sei: agenti dei servizi segreti in borghese. Nessuno si era fatto identificare. Tre rimasero fuori, tre entrarono nell'appartamento e lo rovistarono da cima a fondo per due ore. Interrogarono Bahman e sua moglie Jila con domande sulle rispettive attività professionali e sulle loro opinioni politiche. Confiscarono cd, libri, scritti e persino album di foto di famiglia. Poi esibirono un mandato di cattura firmato dall'allora procuratore di Tehran, Saeed Mortazavi, uno che in Iran si è fatto una fama tale da meritarsi il soprannome di "macellaio della stampa".
Li misero su due macchine e li portarono entrambi nel carcere di Evin, sezione 209.
Cominciò così.
Lui, Bahman Ahmadi Amoui, da Evin non è più uscito, e sono oggi 234 giorni, 7 mesi e mezzo.
Lei, Jila Baniyaghoub, è stata rilasciata dopo 60 giorni, il 19 agosto, grazie al pagamento di una cauzione di 90mila euro.
Da quel giorno la battaglia di Jila, donna minuta e tenace, è diventata quella di riportare a casa il suo Bahman e gli altri amici che sono rimasti a Evin. Una lotta impari, perché l'avversario è un mostro che combatte senza regole. E il mostro, per ora, ha vinto: Bahman è stato processato, l'11 dicembre scorso, dalla sezione 26 del tribunale rivoluzionario. La sentenza è feroce: condanna a 7 anni e 4 mesi di prigione e 34 frustate.
Sono entrambi giornalisti, Jila e Bahman. Lei, redattore capo del sito Kanoon Zanan Irani (Focus sulle donne dell’Iran), è da tempo impegnata sul fronte dell'emancipazione femminile, un terreno minato nella Repubblica Islamica. Era stata già carcere nel 2006 e poi nel 2007, quando la spedirono in isolamento, la interrogarono al buio, la intossicarono costringendola a bere acqua infetta. Jila è stata tra i membri fondatori della campagna One Million Signatures Campaign for Equality, nata per cambiare le leggi iraniane sulla discriminazione di genere. Nel 2009 l’International Women Media Foundation le ha conferito il premio Coraggio nel giornalismo (nell'albo d'oro c'è anche il nome di Anna Politkovskaya). Ma, a ottobre, quando a New York, Washington DC e Los Angeles si sono svolte le cerimonie di consegna del premio, Jila non c'era. Se anche le avessero permesso di lasciare il paese, come avrebbe potuto allontanarsi dal suo Bahman?
Bahman si occupa d'altro. E' un giornalista economico e lavora per vari giornali di orientamento riformista, tra cui Sarmayeh (chiuso dalla censura qualche mese fa). Proviene dalla tribù Bakhtiari. La sua gente viveva di pastorizia e, con la transumanza, si spostava tra le pendici del monte Zagros e la provincia del Khuzestan. Nel Khuzestan Bahman ha potuto frequentare le scuole prima di studiare economia all'università di Babolsar, sulle rive del Mar Caspio. La sua carriera è partita da lì.
Ha commesso un reato gravissimo, Bahman. Nei suoi articoli ha criticato, spesso e volentieri, la politica economica dell'amministrazione Ahmadinejad. Ha messo in evidenza l'elevato livello di corruzione presente nel paese. Ha addirittura sostenuto che il grave deficit di bilancio e l'inflazione galoppante sono dovuti alla scelta del governo di continuare a controllare ogni aspetto della vita economica. Come se non bastasse, ha appoggiato (e Jila con lui) la candidatura di Mir Hossein Mousavi alle elezioni presidenziali di giugno. Per il procuratore Mortazavi ce n'era più che a sufficienza: a Bahman andava riservato un trattamento speciale.
Nella sezione 209 di Evin, Bahman Ahmadi Amoui è stato tenuto in isolamento per oltre due mesi e gli è stato concesso di ricevere rarissime visite dai familiari (solo una, nei primi 65 giorni di detenzione). Hanno mentito al suo avvocato, Farideh Gheyrat, dicendole che il fascicolo relativo a Bahman non c'era o non si trovava, impendendole di conoscere le accuse a suo carico e di sapere a quale sezione del tribunale avrebbe dovuto rivolgersi per richiedere il rilascio su cauzione. Poi, a novembre, per punire Bahman perché aveva osato lamentarsi delle condizioni igienico-sanitarie di Evin, lo hanno rispedito in isolamento, stavolta nella sezione 350.
E Jila?
Jila, da fuori, ha proseguito la sua lotta. Ha rilasciato interviste, ha fatto sit-in davanti al tribunale, ha scritto appelli e lettere d'amore al suo Bahman.
Il 1° settembre: "Mio caro, sono venuta nel carcere di Evin ieri. Avevo il presagio che non mi avrebbero permesso di vederti. Però sono venuta lo stesso, perché mi sento meglio tra le mura di Evin, più vicina a te e agli altri miei cari amici in prigione. Sono venuta a Evin non solo i lunedì, che sono i giorni di visita, ma anche gli altri giorni, per sentirmi più vicina a te e a tutti gli altri miei amici imprigionati."
L'8 novembre: "Oggi, dopo dieci anni di nostra vita insieme, ti conosco meglio che mai e più che mai sono fiera di te. Fiera perché ogni volta che ti vedo non chiedi mai notizie sul tuo caso. Non chiedi mai quando sarai liberato e ogni volta che voglio parlarne io, in un attimo tu cambi discorso."
Il 18 novembre, anniversario di matrimonio: "Oggi sono esattamente 11 anni che sto con te. E' stato proprio in un giorno come questo che è cominciata la nostra vita insieme. Quel giorno abbiamo avuto una cerimonia piccola e semplice, per celebrare quell'inizio. E tu eri semplice come sei sempre stato. Non ti sei neppure messo un vestito. Indossavi lo stesso paio di jeans e la stessa camicia che piacciono a me e a te. E' stato solo quando gli amici hanno insistito per fare qualche fotografia che ti sei messo una giacca."
E, infine: "Ti ricordi che sei sempre stato solito citarmi quel motto asiatico, Trasformiamo in forza la sofferenza? Ti prometto che trasformerò in forza tutte le pene che mi troverò a fronteggiare. Spero che tu, da parte tua, non abbia dimenticato quel motto e che possa trasformare in forza il dolore e la pena del carcere.
Sono sicura che ce la farai.".
*dal blog http://amicidelliran.blogspot.com/