di Marco Curatolo*
Saeed Kalanaki, Saeed Jalalifar, Shiva Nazar Ahari, Koohyar Goodarzi, Saeed Haeri, Parisa Kakayi, Mehrdad Rahimi.
Rileggete questi nomi con attenzione e, se potete, provate a tenerne a mente qualcuno. È uno sforzo necessario, perché sono sette eroi del nostro tempo. Può aiutare la memoria il fatto che la sezione italiana di Amnesty International abbia recentemente pubblicato un appello in loro favore (è possibile firmare online): http://www.amnesty.it/iran_arresti.html.
Questi sette nomi fanno parte di una lista ben più lunga, quella dei giornalisti, blogger e fotoreporter detenuti nella Repubblica Islamica dell’Iran, una lista che nel corso delle recenti settimane si è ingrossata fino a superare i 65 nomi (Reporters Sans Frontières parla ormai di oltre 80). Un record che tradisce una preoccupazione sempre più viva delle autorità di Tehran: ridurre al silenzio la libera informazione. È un obiettivo che va perseguito con metodo e costanza, se si vuole che la repressione abbia successo.
I sette che abbiamo elencato hanno però in comune qualcosa di più, oltre alla generica appartenenza alla categoria “giornalisti”: sono tutti membri del Committee of Human Rights Reporters. Il CHRR è un’organizzazione umanitaria (rigorosamente apolitica) tra le più impegnate ed esposte, in Iran; una delle poche i cui militanti abbiano ancora la forza e il coraggio di operare stando all’interno del paese. Il sito web www.chrr.us è una preziosa fonte di informazioni nonché uno dei motivi per i quali il regime perseguita questi attivisti. Si tratta, in sostanza, di reporter che mettono il loro lavoro al servizio della causa dei diritti umani. Dobbiamo anche a loro se le notizie sulle continue violazioni commesse del regime giungono fino a noi; se sappiamo in quali condizioni i prigionieri politici iraniani vengano detenuti; se possiamo conoscere di cosa sono accusati e in quali modi i loro diritti alla difesa e al giusto processo vengano negati dalle autorità.
Ora dietro le sbarre, nel carcere di Evin, ci sono loro, i “reporter per i diritti umani”, e proprio quando la loro attività sarebbe tanto più necessaria. Non è un caso.
Shiva Nazar Ahari era stata arrestata il 14 giugno 2009 e rilasciata, dopo 103 giorni di prigionia, il 24 settembre. La sua libertà è durata meno di tre mesi. Fuori da Evin, ha fatto in tempo a promuovere la campagna in favore della studentessa Atefeh Nabavi (arrestata e condannata a 6 anni) e a rilasciare una lunga video-intervista pubblicata su Youtube (una traduzione in italiano è disponibile online: http://amicidelliran.blogspot.com/2009/12/shiva-nazar-ahari-video-intervista.html) in cui ha raccontato la sua esperienza carceraria e il suo senso di disagio per la ritrovata libertà: dietro di sé, uscendo da Evin, aveva lasciato in prigione amici e colleghi. “In carcere era più facile perché vedevo me stessa come una prigioniera. Non c’era nulla che potessi fare, ma per lo meno mi trovavo vicino agli altri.” Il regime ha provveduto ad accontentarla, a suo modo. Il 20 dicembre scorso, mentre stava partendo verso Qom per recarsi ai funerali dell’Ayatollah Montazeri, Shiva è stata riarrestata. Sullo stesso pullman, insieme a lei, c’erano Koohyar Goodarzi e Saeed Haeri, anche loro del CHRR. Li hanno presi tutti e tre. A partire dalle elezioni di giugno, al momento in cui scriviamo Shiva Nazar Ahari ha complessivamente trascorso in prigione oltre 160 giorni, più di 100 dei quali in isolamento. Le ultime notizie riportano che si trova in una cella-gabbia talmente piccola che non ha neppure lo spazio per distendere le gambe o allargare le braccia. Potrebbe uscirne, se confessasse quello che le autorità vogliono: che il CHRR è legato all’MKO (l’organizzazione dei Mojahedin del popolo) e complotta contro la stabilità e la sicurezza del paese.
Koohyar Goodarzi, arrestato insieme a lei, è stato accusato di “Moharebeh” (“guerra contro Dio”). In Iran essere giudicati “nemici di Dio”, non significa semplicemente essere additati come peccatori da qualche chierico bacchettone o godere di cattiva reputazione in un ambiente bigotto: significa andare incontro alla pena di morte. E se essere minacciati, arrestati, torturati è una sorte a cui i difensori dei diritti umani vanno incontro quasi sempre, quando al potere c’è un regime, in Iran succede qualcosa di più: gli attivisti non solo vengono perseguitati e rinchiusi in prigione per mesi o per anni, ma sono anche incriminati come “Mohareb”. Il che è come dire che battersi per le libertà più comuni, come quella di opinione e di espressione, o chiedere per i cittadini processi equi e un trattamento carcerario dignitoso, per le autorità iraniane equivale a bestemmiare, a essere eretici, a meritare la morte.
È un rischio che corre anche un altro dei sette membri del CHRR attualmente in carcere, Mehrdad Rahimi, lui pure accusato di “Moharebeh”. Attivista del movimento studentesco, già membro del comitato per la difesa dei diritti dei cittadini nell’ufficio di Mehdi Karoubi, Rahimi è stato arrestato il 2 gennaio scorso insieme a Parisa Kakayi. Dopo varie minacce e avvertimenti telefonici, sono stati convocati per un interrogatorio presso il Ministero della Sicurezza. Naturalmente, una volta recatisi all’appuntamento, sono stati spediti direttamente alla sezione 209 di Evin. Parisa (come Shiva) è un’altra delle tante donne iraniane in prima fila: pagano la dedizione alla libertà del loro popolo e il troppo amore per il loro paese. Dice di lei la madre: “Ha sempre pensato a fare del bene al prossimo e ad aiutare gli altri. Non merita questo. Io faccio l’insegnante, ho ricevuto molti riconoscimenti per il mio lavoro. Il padre di Parisa è un’ufficiale dell’aeronautica in pensione. Siamo sconvolti, non abbiamo nemmeno la forza di uscire di casa.” (1)
Saeed Kalanaki e Saeed Jalalifar sono quelli in carcere da più tempo. Si trovano a Evin dal 1° dicembre scorso. Kalanaki è stato prelevato in ufficio, ma in un secondo momento gli agenti sono entrati nel suo appartamento, lo hanno rovistato da cima a fondo e hanno sequestrato i suoi effetti personali. Jalalifar è stato catturato mentre usciva di casa ed è ora accusato di propaganda contro il regime. Entrambi hanno alle spalle un passato fatto di attivismo (nel movimento studentesco), arresti e condanne.
Per qualche giorno i membri del CHRR in carcere sono stati, in realtà, otto. Ali Kalayi, blogger e attivista per i diritti umani, è stato a Evin per una settimana, dal 7 al 14 febbraio, prima di essere rilasciato su cauzione. Contro di lui c’era l’accusa di avere pubblicato un comunicato di alcuni settori dell’esercito a sostegno del popolo iraniano.
Il lavoro del Committe of Human Rights Reporters, benché l’organico dell’organizzazione sia stato decimato dagli arresti, prosegue. Le notizie dalle prigioni iraniane continuano a filtrare, ad essere pubblicate sul sito del comitato e a fare il giro del mondo. Tra queste notizie, ci sono anche quelle che riguardano i sette protagonisti di queste note: sottoposti a continue pressioni, minacce, vessazioni. Le attività del CHRR devono cessare, continuano a ripetere le autorità ai sette prigionieri (ma forse sarebbe più corretto chiamarli “ostaggi”), il sito deve essere oscurato, altrimenti i membri del gruppo veranno arrestati uno ad uno. A Koohyar Goodarzi è stato chiesto di registrare per la tv il video di una falsa confessione. “Se volete che collabori – ha risposto a coloro che lo interrogavano –, prima liberate i prigionieri politici. Tutti e senza condizioni.”
Saeed Kalanaki, Saeed Jalalifar, Shiva Nazar Ahari, Koohyar Goodarzi, Saeed Haeri, Parisa Kakayi, Mehrdad Rahimi. Ripetiamo i loro sette nomi e l’invito a non dimenticarli.
Sono sette eroi, in un paese in cui i difensori dei diritti umani vengono considerati nemici di Dio.
(1) Apprendiamo proprio mentre ci accingiamo a concludere queste note che Parisa Kakayi è stata rilasciata stanotte. I membri del CHRR in carcere sono così, ora, sei. È una buona notizia e la diamo con gioia: dall’Iran, e da Evin in particolare, non ne giungono molte.
*http://amicidelliran.blogspot.com/