di Marco Curatolo *
Era stata convocata per rispondere a qualche semplice domanda. Quando Hengameh Shahidi, il 25 febbraio, si è recata all’ennesimo interrogatorio presso il Ministero della sicurezza, pensava che sarebbe andata come le altre volte. Era stata rilasciata a novembre scorso dopo 121 giorni di reclusione nel carcere di Evin, e da allora le richieste di informazioni, gli interrogatori e le pressioni da parte delle autorità del ministero erano state una costante della sua ritrovata libertà; ma ogni volta che era uscita di casa per rispondere a quelle convocazioni, Hengameh aveva sempre potuto farvi ritorno. Stavolta non è andata così. In tarda serata il suo legale, l’avvocato Mohammad Mostafaei, ha ricevuto una telefonata dalla madre di Hengameh, in lacrime. L’incubo era ricominciato e aveva il nome sinistro di sempre: Evin.
Di Hengameh Shahidi, giornalista e blogger iraniana, sostenitrice di Mehdi Karoubi alle elezioni presidenziali, su Articolo 21 ci eravamo già occupati l’estate scorsa. Ahmad Rafat, che la conosce bene, aveva raccontato i drammatici giorni precedenti il primo arresto della Shahidi, avvenuto il 30 giugno 2009. Hengameh, tornata in patria dopo aver vissuto a Londra per un periodo, era braccata dagli agenti come si fa con un pericoloso criminale. Cambiava tetto ogni notte cercando di nascondersi e continuava ad aggiornare il suo blog (http://www.hengamehshahidi.blogfa.com/) nei giorni immediatamente successivi alle elezioni. Poi la caccia era terminata e Hengameh era stata catturata.
Per quattro mesi, nella sezione 209 di Evin, Hengameh Shahidi ha ricevuto il trattamento che si riserva agli ospiti “di riguardo”: 50 giorni di completo isolamento, pressioni e minacce di inaudita durezza. Per sfibrarla hanno persino messo in scena la sua condanna a morte e una finta esecuzione, con tanto di cappio legato al collo. Hanno tentato di costringerla ad ammettere “relazioni immorali” con uomini. In segno di protesta, Hengameh è stata a più riprese in sciopero della fame, ad agosto e poi di nuovo a ottobre. Il suo stato di salute è peggiorato, il suo sistema nervoso è stato messo a dura prova. La Shahidi soffre del resto di problemi al cuore che la costringono ad assumere molte medicine al giorno. Uscita dall’isolamento, è stata messa nella stessa cella con un’altra giornalista, Fariba Pajouh, e insieme hanno ricominciato un nuovo sciopero della fame, con l’intenzione di portarlo fino alle estreme conseguenze. “O esco da Evin libera, o ne esco morta”, ha fatto sapere in quella occasione. Dopo una settimana senza cibo, Hengameh è stata ricoverata nell’ospedale del carcere e quindi rilasciata su cauzione (90mila dollari). Era il 1° novembre 2009.
Poche settimane più tardi, il tribunale ha emesso contro di lei una sentenza di condanna a 6 anni, 3 mesi e 1 giorno di carcere. Si aspettava l’appello, e si sperava in una sensibile riduzione della pena. Tutto si poteva immaginare, tranne quello che l’avvocato Mostafaei ha scoperto il 26 febbraio scorso, quando si è recato al Tribunale rivoluzionario per chiedere spiegazioni sul nuovo arresto del 25: senza che il legale di Hengameh ne sapesse nulla, il processo di appello aveva avuto luogo e la condanna era stata in sostanza confermata, con uno sconto risibile (3 mesi e 1 giorno).
Hengameh Shahidi, convocata al Ministero per rispondere a poche domande, si è ritrovata in carcere a scontare una pena di 6 anni divenuta, ad insaputa di tutti, definitiva.
Il periodo della carcerazione preventiva, trascorso a Evin tra luglio e ottobre, va sottratto al totale. Tolti quei 4 mesi, a Hengameh ne restano altri 68.
* dal blog http://amicidelliran.blogspot.com/