di Ylenia Di Matteo
A cosa pensiamo quando sentiamo evocare il termine “sicurezza”? La gran parte di noi, condizionati da scrupolose campagne mediatiche per lo più preelettorali associa questo termine ad altri come irregolarità, criminalità, violenza. Può allora capitare che, utilizzata strumentalmente nella corsa al voto la parola sicurezza possa far vincere le elezioni (in casi ancora peggiori può giustificare una guerra). “Quali sono – declama il sondaggista di turno - le paure principali degli italiani?” Tra le prime risposte una non manca mai: “la sicurezza”. Se consultiamo su internet il motore di ricerca “google” scopriamo che è contenuta in oltre 31 milioni di pagine italiane. Eppure, la prima voce di questo sterminato elenco la riguarda sotto un aspetto completamente diverso: quello del lavoro. La rete, probabilmente è più avanzata della politica… Fatto sta che ogni anno circa 1.000 persone perdono la vita sul luogo di lavoro e centinaia di migliaia sono quelle che subiscono un infortunio. L’OIL (Organizzazione Internazionale sul Lavoro) ha individuato nel 28 aprile la Giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro, elaborando per il 2010 un documento che dovrà caratterizzare l’impegno in tutti i Paesi dal titolo: “Rischi emergenti e nuove forme di prevenzione in un mondo del lavoro che cambia”. Mai come adesso il lavoro costituisce una drammatica realtà (precarietà, sommerso, nuove frontiere economiche). Mai come adesso i governi nazionali dovrebbero assumersi responsabilità, e pretendere il pieno rispetto delle regole.
Oggi, all’ingresso delle fabbriche in cui è presente, il Patronato Inca CGIL distribuisce piccole guide dal titolo “Leggi bene per non farti male”, uno strumento pratico che dice cosa fare in caso di incidenti o malattie correlate al lavoro.
Stragi quotidiane. Annunciate. E per questo inaccettabili.
In Italia purtroppo ne ricordiamo molte. Dalla ThyssenKrupp all’amianto killer della Fincantieri, dall’operaio che cade dall’impalcatura a quello che inala sostanze tossiche poiché sprovvisto di mascherina. Donne, uomini, italiani, stranieri, nessuna distinzione.
I mass media le chiamano “morti bianche”, come in assenza del diretto responsabile. I colpevoli invece ci sono sempre.
Si chiamano avidità, ignoranza, mancanza di scrupoli dell’imprenditore che se infischia della sicurezza del proprio dipendente (a volte in nero, specie se immigrato, meglio se irregolare, così lo si ricatta meglio). Il lavoratore cade nella trappola, costretto a ignorare i propri diritti, in nome di quel lavoro che non c’è.
Si chiama assenza. Di uno Stato che a volte è poco attento. Concentrato su sé stesso. Traditore di quell’Art.1 che è, o dovrebbe essere la sua linfa vitale.