di Ottavio Olita
Il primo giugno scorso, all’indomani dei risultati del primo turno delle amministrative sarde, la grancassa del centrodestra annunciava lo sfondamento delle ultime difese dei ‘fortini’ del centrosinistra in Sardegna. Grancassa ripresa da tanti quotidiani che, pur di osannare il vantaggio, nelle percentuali, dei candidati di centrodestra, ignoravano deliberatamente il vertiginoso calo del PdL rispetto alle regionali del 2009: ben 14 punti in meno.
Domenica e lunedì scorsi i ballottaggi si sono chiusi con un sonoro 7-0 a favore dei candidati del centrosinistra (le province di Cagliari, Nuoro, Ogliastra; i comuni di Nuoro, Iglesias, Sestu, Porto Torres) ma, ad eccezione de L’Unità e di Repubblica _ quest’ultimo quotidiano con due colonnine a pagina 15 – quasi nessuno ne ha parlato. Cosa sarebbe successo a risultati invertiti? E ancora. E’ vero che il dato più eclatante è il fortissimo astensionismo, ma quali equilibri politici sono emersi dal voto amministrativo?
Partiamo dai risultati complessivi. Nel 2005, sull’onda trascinante di Soru che aveva vinto le regionali l’anno precedente, il centrosinistra si aggiudicò sette delle otto province, lasciando agli avversari solo la Gallura. Questa volta, un anno dopo la vittoria di Cappellacci su Soru, il risultato è stato di 6-2, sempre per il centrosinistra. Ad eccezione delle province di Oristano e della Gallura, tutto il resto del territorio sardo non si riconosce nella maggioranza che governa la Regione, con alcuni segnali di grande clamore, come il crollo in provincia di Cagliari, dove il Pdl ha perso, solo nel secondo turno, ben 43 mila voti. In assenza del grande comunicatore, dell’incantatore di serpenti che questa volta si è disinteressato del voto sardo non invocando, come fa sempre, un plebiscito sul suo nome, anche gli elettori del centro destra sono stati più liberi di scegliere. Non solo non hanno sostenuto i candidati proposti dalle segreterie, ma hanno massicciamente disertato le urne. Diserzione che ha riguardato, quasi in egual misura, anche il popolo del centrosinistra.
Alcune cifre per capire. Rispetto al primo turno – quando c’era stato un calo di partecipazione al voto di undici punti percentuale rispetto al 2004 -, il 13 e 14 giugno si è perso per strada, alle provinciali, un altro 22 per cento. Alle urne si è recato il 30,4% degli aventi diritto. Il tonfo più pauroso a Cagliari, con il 24,9 per cento di votanti: vale a dire il presidente uscente Milia è stato confermato nell’incarico solo dal 13 per cento degli elettori. Legittimo, dunque, l’entusiasmo per la vittoria, ma il centrosinistra – alla pari del centrodestra – farà un gravissimo errore se non valuterà correttamente questo dato preoccupante per la democrazia. I cittadini chiedono qualità alla politica, sono stufi di essere interpellati solo per scegliere gli uomini proposti dagli apparati. Vogliono contare nelle decisioni e nelle scelte in modo diverso, coinvolgente, non solo per depositare le schede nell’urna. Continuano ad intendere la politica come partecipazione e non come un spettacolo televisivo del quale sono passivi spettatori su cui, periodicamente, sono chiamati a dare un giudizio. Con il serio rischio che, in futuro, a qualcuno possa venire in testa di mettere il televoto al posto delle elezioni popolari e democratiche. La Sardegna, tradizionalmente considerata una regione-laboratorio politico, questa volta invia un messaggio molto più preoccupato e preoccupante ai partiti ma anche ai rappresentanti istituzionali: la democrazia si regge solo con una forte adesione. Bisogna ricostituire le condizioni per rendere possibile la partecipazione popolare alle scelte che precedono le scadenze elettorali. Se queste vengono trasformate in un rito in cui si devono solo avallare scelte fatte altrove e in modo separato dai luoghi dove si possa praticare la democrazia, i cittadini dimostrano fastidio e sfiducia.
L’allarme lanciato dai sardi, in precedenza sempre molto solleciti a rispondere alla chiamata alle urne, deve essere un avvertimento per tutte le forze politiche democratiche, anche in prospettiva, anche in funzione di quella legge elettorale nazionale che concorre a formare un parlamento di nominati e non di eletti. E’ in altre parole un segnale forte inviato a quanti credono sul serio che vada combattuta la deriva populistica e plebiscitaria che Berlusconi sta dando alla vita politica italiana.