Articolo 21 - INTERNI
Pomigliano, furto di memoria
di Claudio Fava
L’indignazione, dalle nostre parti, è un mestiere dai tratti aristocratici. Ci si indigna per le libertà violate, per i bavagli all’informazione, per i puntigli e i principi: le piazze si riempiono di camicie viola e megafoni, i giornali dedicano dozzine di pagine a raccogliere i sentimenti di un intero popolo, si consultano opinionisti, padri della patria, oracoli, ci si incatena davanti ai cancelli della Rai o al portone perennemente chiuso di Palazzo Chigi. Nulla di tutto questo è accaduto ai margini della vicenda di Pomigliano. Ovvero di fronte all’offensiva padronale della Fiat contro i diritti degli operai, diritti indisponibili perché affermati e tutelati dalla Costituzione, come il diritto riconosciuto a qualsiasi lavoratore di poter scioperare per difendere le proprie ragioni. Quel diritto, nella proposta di contratto di Marchionne, si trasforma in un viatico al giusto licenziamento come non accadeva nemmeno nella Fiat di Valletta. Marchionne e questo governo chiedono che, in cambio di investimenti sullo stabilimento di Pomigliano, i lavoratori della Fiat rinuncino al contratto collettivo, alla mensa, a turni di lavoro meno massacranti. Dice la Fiat: se volete che la fabbrica non venga smontata e portata in Polonia, queste sono le condizioni di lavoro e di contratto, prendere o lasciare. Qualcuno ha preso, qualcun altro ha lasciato ritenendo (è la posizione della Fiom) che, se passa a Pomigliano, questo modello contrattuale fondato sulla rinunzia ai propri diritti diventerà il modello obbligato su cui impresa e lavoratori regoleranno i loro rapporti e i loro conti ovunque in futuro.
Perché il popolo viola tace? Perché su questa battaglia di principi e di diritti non si sono ascoltate le voci alte e indignate che abbiamo registrato sul bavaglio ai giornalisti? Perché i direttori dei grandi quotidiani italiani hanno derubricato questa faccenda a una contesa interna alla CGIL e non a uno scontro di civiltà tra un mercato che non vuole lacci e lacciuoli e la civiltà del lavoro che è anzitutto luogo di dignità? Non lo dico per furia ideologica ma perché penso al paese materiale. Dove la materialità sono anche i 750 euro di cassa integrazione che percepiscono gli operai di Pomigliano, i diciotto turni di lavoro pretesi dalla Fiat, la rinunzia alla refezione, la promessa di tornare a una valutazione dei rendimenti in fabbrica scandita dai cronometri e dalla minaccia di licenziamento nella più ottusa tradizione taylorista. Marchionne dice che l’abrogazione de facto del contratto nazionale di lavoro e la violazione delle garanzie costituzionali sarà un’eccezione, un pedaggio richiesto se si vuole evitare la chiusura dello stabilimento. Ma cosa impedirà in futuro alla Fiat, a questo governo o alla confindustria di invocare lo stesso principio d’eccezionalità per altre fabbriche, per altri contratti di lavoro da violare? Cosa impedirà che la messa in vendita del diritto di sciopero diventi prassi pretesa e imposta in tutto il paese? Cosa impedirà che Pomigliano D’Arco rappresenti il principio di una fine? La fine dello stato di diritto, del sindacato, dello statuto dei lavoratori, della responsabilità sociale delle imprese prevista dalla Costituzione.
E soprattutto: chi lo impedirà? I senatori dell’opposizione democratica che, in un paese in cui l’informazione pubblica è asservita ai capricci di Berlusconi, si sono lamentati per il troppo spazio concesso dai Tg alla Fiom? Lo impedirà Veltroni che parla di “accordo inevitabile”, di una “condizione obiettiva” in nome di una non meglio precisata “sfida di innovazione?”. Adesso si chiama innovazione togliere la mensa agli operai? Ma se per chiedere un investimento all’azienda più beneficiata nella storia italiana da contributi pubblici diretti e indiretti bisogna derogare al contratto, ai diritti e ai principi costituzionali, che senso ha tenere in vita i sindacati? Trasformiamo la Cgil in una bocciofila e lo Statuto dei lavoratori in una preghierina da catechismo e non se ne parli più. Dice Veltroni, e dice il vero: 1.600 permessi per fare i rappresentanti di lista tra gli operai di Pomigliano alle ultime elezioni politiche. Omette di aggiungere che 1.200 richieste portavano la firma del suo partito, il PD.
Eppure su tutto questo tacciono quasi tutti. Finché si tratta di mandare al rogo Berlusconi, todos caballeros: ma se c’è da spendere un pensiero preoccupato sulla Fiat, sui poteri forti del capitalismo italiano, il più decotto e assistito d’Europa, le parole si fanno caute, non una sciarpetta viola ad agitare le piazze, non un megafono a spiegare davanti al portone sprangato di palazzo Chigi che questione sociale e questione democratica sono entrambe sofferenze di un paese molto malato.
Perché il popolo viola tace? Perché su questa battaglia di principi e di diritti non si sono ascoltate le voci alte e indignate che abbiamo registrato sul bavaglio ai giornalisti? Perché i direttori dei grandi quotidiani italiani hanno derubricato questa faccenda a una contesa interna alla CGIL e non a uno scontro di civiltà tra un mercato che non vuole lacci e lacciuoli e la civiltà del lavoro che è anzitutto luogo di dignità? Non lo dico per furia ideologica ma perché penso al paese materiale. Dove la materialità sono anche i 750 euro di cassa integrazione che percepiscono gli operai di Pomigliano, i diciotto turni di lavoro pretesi dalla Fiat, la rinunzia alla refezione, la promessa di tornare a una valutazione dei rendimenti in fabbrica scandita dai cronometri e dalla minaccia di licenziamento nella più ottusa tradizione taylorista. Marchionne dice che l’abrogazione de facto del contratto nazionale di lavoro e la violazione delle garanzie costituzionali sarà un’eccezione, un pedaggio richiesto se si vuole evitare la chiusura dello stabilimento. Ma cosa impedirà in futuro alla Fiat, a questo governo o alla confindustria di invocare lo stesso principio d’eccezionalità per altre fabbriche, per altri contratti di lavoro da violare? Cosa impedirà che la messa in vendita del diritto di sciopero diventi prassi pretesa e imposta in tutto il paese? Cosa impedirà che Pomigliano D’Arco rappresenti il principio di una fine? La fine dello stato di diritto, del sindacato, dello statuto dei lavoratori, della responsabilità sociale delle imprese prevista dalla Costituzione.
E soprattutto: chi lo impedirà? I senatori dell’opposizione democratica che, in un paese in cui l’informazione pubblica è asservita ai capricci di Berlusconi, si sono lamentati per il troppo spazio concesso dai Tg alla Fiom? Lo impedirà Veltroni che parla di “accordo inevitabile”, di una “condizione obiettiva” in nome di una non meglio precisata “sfida di innovazione?”. Adesso si chiama innovazione togliere la mensa agli operai? Ma se per chiedere un investimento all’azienda più beneficiata nella storia italiana da contributi pubblici diretti e indiretti bisogna derogare al contratto, ai diritti e ai principi costituzionali, che senso ha tenere in vita i sindacati? Trasformiamo la Cgil in una bocciofila e lo Statuto dei lavoratori in una preghierina da catechismo e non se ne parli più. Dice Veltroni, e dice il vero: 1.600 permessi per fare i rappresentanti di lista tra gli operai di Pomigliano alle ultime elezioni politiche. Omette di aggiungere che 1.200 richieste portavano la firma del suo partito, il PD.
Eppure su tutto questo tacciono quasi tutti. Finché si tratta di mandare al rogo Berlusconi, todos caballeros: ma se c’è da spendere un pensiero preoccupato sulla Fiat, sui poteri forti del capitalismo italiano, il più decotto e assistito d’Europa, le parole si fanno caute, non una sciarpetta viola ad agitare le piazze, non un megafono a spiegare davanti al portone sprangato di palazzo Chigi che questione sociale e questione democratica sono entrambe sofferenze di un paese molto malato.
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