di Santo Della Volpe
Come tutte le “carte” deontologiche nel mondo giornalistico, anche la Carta di Trieste nasce da un incontro; anzi,in questo caso, da più incontri. Il primo incontro è stato… una necessità: in una società dove il sapere immateriale, l’informazione per la conquista delle coscienze e dell’immaginario collettivo sono sempre di più terreno di scontro e di battaglia (politica ed a sua volta mediatica), anche chi soffre per la propria salute mentale e gli operatori che di Basaglia si sentono eredi e non orfani, hanno deciso di non restare “oggetti” della cronaca e dell’informazione, ma soggetti vitali, presenti per reclamare diritti e rapporti con il mondo della comunicazione.
Era nato così il primo incontro, dopo anni di lavoro sotterraneo, a febbraio a Trieste, quando, per iniziativa di Articolo21, abbiamo chiesto ad operatori del mondo della psichiatria e alle stesse persone con problemi di salute mentale. di studiare una Carta deontologica che facesse incontrare il diritto di cronaca con il dovere di informare correttamente.
Il terreno d’incontro era l’ex ospedale San Giovanni di Trieste, all’ombra di quel cavallo che Basaglia ed i suoi degenti usarono per sfondare il muro dell’indifferenza, della chiusura sociale e materiale, ma anche per entrare nell’informazione, allora 40 anni fa, costringendo l’Italia a capire cosa succedeva nelle mura chiuse della contenzione forzata. Le inchieste di Sergio Zavoli e TV7, dell’Espresso e del Corriere della Sera di Piero Ottone, aprirono un mondo, abbatterono delle porte , aprirono la strada alla legge 180. Ma poi , negli ospedali come nella nostra società, il meccanismo si inceppò,l’opera rimase incompiuta. Ed a Trieste, l’11 febbraio scorso,incontrando alcuni giornalisti, Filippo, Anna, Carla ed altri ex degenti dei centri di salute mentale, chiesero apertamente: perché usate ancora frasi fatte (“il raptus di follia”, “l’insano gesto”,ad esempio…) per etichettare persone o per evitare di capire situazioni e momenti della vita? Domanda impegnativa: dietro l’accusa, spesso giusta riconosciamolo, di superficialità c’era la richiesta di essere capiti, di non lasciare incompiuta quella “rivoluzione copernicana” basagliana che metteva la persona al centro , invece dell’istituzione ; e quindi se nel momento in cui sprofonda nella follia la persona resta comunque tale, è necessario che l’informazione capisca, scavi dietro un fatto, evitando la banalità e la superficialità. Tanto più oggi, quando una notizia può diventare etichetta a vita, un’ immagine resta appiccicata alla persona per sempre, riproposta ,in Tv ma a maggior ragione nel Web, migliaia di volte, anche quando quella persona è cambiata, inchiodandola invece ad un passato momento della vita, a quell’attimo di follia. Un marchio.
Ma anche una liberazione: perché è comodo dire “momento di follia” ed archiviare un fatto di cronaca,spedire tutto in memoria , nell’hard disk della compassione e comprensione del fattaccio (“che volete, è un folle….”) salvando capra e cavoli, società e individualità: ma lasciando a sé stessa quella persona protagonista del fatto, dimenticandola in fretta, tanto c’è chi ci pensa (Chi? Le ASL? La famiglia?Gli altri…non io,mai noi….);per di più marchiata.
Può oggi l’informazione accettare di essere complice di una qualsiasi forma di esclusione sociale ed individuale? Abbiamo risposto di no; perché l’informazione, qualunque, non può mai essere complice di una sofferenza. Ed allora proviamo a scrivere insieme una Carta che, sull’esempio di quella di Treviso,individui la persona che in quel momento ha un problema di salute mentale come un soggetto debole, quindi indifeso,intorno al quale stendere una cortina di attenzione e rispetto. Senza far venire mano (mai) il diritto di cronaca, ma facendo incontrare diritti individuali e diritti collettivi, il diritto di sapere con il diritto di difendere chi sta male,in quel momento specifico. Così è nata, e si è sviluppata poi a marzo, l’esigenza di incontrare anche i vertici nazionali della FNSI, il sindacato dei Giornalisti, perché fosse parte consapevole e promotrice di questa Carta (magari in vista dei prossimi contratti di lavoro dei giornalisti…) ed aprisse anche la strada verso quell’Ordine dei Giornalisti che dovrebbe essere custode e tutore di una simile iniziativa,facendone oggetto di deontologia professionale.
Pubblicheremo la Carta di Trieste su Articolo21, la divulgheremo e ne faremo punto di riferimento dopo la presentazione di Trieste; questo ultimo incontro (ma solo in ordine di tempo) che si intitola “Impazzire si può…” ma che non a caso, ha un altro titolo a conclusione delle giornate di lavori: “guarire si deve…”: per indicare una strada, un percorso,nel quale l’informazione ha un ruolo decisivo.
Ma nel quale, a ben vedere, siamo tutti calati: perché la vita è un cammino sopra la linea della follia (diceva il poeta) e può capitare a chiunque,in un dato momento ed in particolari circostanze, di cadere sotto quella linea ,per un attimo più o meno breve. E tutti, allora, possono diventare soggetti deboli. E tutti in quel momento hanno bisogno di essere garantiti nei propri diritti individuali. Senza che un flash fotografico,una ripresa televisiva, uno stereotipato nomignolo, marchino per sempre chi è scivolato indietro,nel mare dei problemi e nel bisogno di comprensione. Dal quale si può e si deve uscire, senza infamia e senza che una mancanza di attenzione, una rozza definizione, ricacci indietro che faticosamente vuole risalire la china.
A volte basta poco: come diceva Alda Merini,” e pensare che sarebbe bastata una carezza per capovolgere il mondo”.