di Ottavio Olita
Scajola, Brancher, Cosentino: tutti in pochi mesi. Il governo del fare sta diventando l’esecutivo dei dimessi o dimissionati. E a poche ore di distanza dal tentativo di Berlusconi di disinnescare la bomba con l’affermazione “Si tratta di quattro pensionati sfigati” riferita a Flavio Carboni e soci – tre giorni prima uno dei giornali di famiglia, ‘Libero’, li aveva immediatamente definiti “Tre pirla”, giocando sulla sigla P3 – la dimensione e il peso morale di quanto sta accadendo ha determinato la scelta di una deflagrazione pilotata. Gli artificieri del PdL sono intervenuti per disinnescare l’ordigno politico che se fosse esploso avrebbe causato danni devastanti nella maggioranza di centrodestra, in particolare dopo la netta presa di posizione dei finiani.
Evitata la conta, Berlusconi non ha comunque risolto i problemi che gli vengono da quella destra interna che, finalmente, riprendendo con coraggio e determinazione libertà d’azione, vuole percorrere una strada che restituisca dignità allo Stato contro i comitati d’affari che continuano a spadroneggiare indisturbati e dei quali nulla avremmo saputo se fosse stato già in vigore quello sciagurato Ddl 1611 sulle intercettazioni telefoniche costruito da Alfano sui ‘desiderata’ del premier.
Coprire, nascondere, non far sapere soprattutto che la prassi delle scelte in merito a fatti istituzionali (Corte Costituzionale e Lodo Alfano), o a grandi progetti economici che incidono pesantemente sull’ambiente (i Parchi Eolici in una regione tutta paesaggi e natura come la Sardegna), segue percorsi che scavalcano completamente il limpido e trasparente iter delle leggi e dei regolamenti. Un apparato parallelo e clandestino in totale disprezzo dei meccanismi democratici.
Questi cospiratori con i colletti bianchi, che intendevano farsi beffe del parlamento, della magistratura, dei consigli regionali, davvero avevano il proposito di “cambiare l’Italia, quando non ci sono riuscito neppure io…” secondo la valutazione del premier?
“Cambiare l’Italia”? Costruire complotti nella stessa area di appartenenza, cercare di fare affari, pilotare nomine, condizionare qualche magistrato: questo è “cambiare l’Italia?”. Non mi ha spaventato tanto che Berlusconi, confermando se stesso, non abbia avuto difficoltà a fare questa affermazione di fronte all’indecenza degli interventi programmati dalla cosiddetta P3; quel che mi ha sconvolto sono state le reazioni timide, se non del tutto assenti di chi l’ha ascoltata. Forse l’irresistibile Silvio ci ha narcotizzati un po’ tutti, perché la sana indignazione di un tempo non esiste più. Ma se un giorno noi, i democratici, i costituzionalisti, i rispettosi delle leggi e delle regole riproveremo a guidare questo sfortunato Paese, siamo coscienti, già oggi, di quale immenso lavoro di ricostruzione morale, sociale e politica dovremo affrontare, soprattutto con le giovani generazioni private di diritti, speranze, futuro? quei giovani che vagano tra rassegnazione o passiva accettazione di questo sistema, convinti che non esista altro metodo per accedere al lavoro – sempre e comunque precario - se non quello di essere graditi a chi ha in mano il potere, che sia politico o economico?
Un simbolo dell’Italia di oggi sono le macerie di quella straordinaria città ricca di storia e cultura che è L’Aquila. Perché rimettere in piedi quelle strutture che raccontano la civiltà di un popolo? Basta edificare la città sostituitiva, di carta pesta, delle casette prefabbricate complete delle posate e della carta igienica in modo che si possano sempre intonare peana glorificanti a Silvio Berlusconi. L’Aquila dovrà essere ricostruita, come i nostri sentimenti, la nostra coscienza collettiva, il rigore nel rispetto delle regole, come la presenza di uno Stato vero, che abbia significato per giovani, anziani e donne, per restituire certezze, garanzie ed equità a chi con encomiabile dedizione paga le tasse perché sa che sono necessarie per legittimare un forte senso della collettività.
Quanto tempo ci vorrà per questo lavoro? Perché le forze politiche democratiche, comunque quelle che ancora credono nello Stato, non cominciano a discuterne con le associazioni, i gruppi, i movimenti, invece di perdere tempo a inseguire la Lega sulle idiozie relative a Garibaldi, l’inno, la bandiera, la Padania e la Nazionale di calcio? Perché non si comincia a fare una previsione del danno che deriverà alle giovani generazioni dal taglio indiscriminato all’istruzione, alla ricerca, all’Università? Questi temi non possono essere soltanto oggetto di battaglia nei tanti appuntamenti elettorali. In gioco c’è il futuro di un Paese che non si riconosce, che ha dimenticato se stesso, che ogni tanto ascolta Napolitano per affetto verso un nonno piuttosto che per condivisione. Questa è l’Italia frutto di quei “tentativi di cambiamento” predicati e attuati in quasi vent’anni di berlusconismo, attraverso una comunicazione totalizzante che non è stata contrastata efficacemente da una sinistra più preoccupata di mostrarsi con un nuovo volto, piuttosto che decisa nel difendere e riaffermare i forti valori che dalla Costituzione e fino all’assassinio di Aldo Moro avevano concorso a costruire una democrazia forte e colta. Senza la ricostruzione di un’alleanza intorno ai valori straordinariamente attuali della Carta Costituzionale non riusciremo ad uscire dai miasmi, dalle polveri, dalle ceneri delle macerie culturali e morali in mezzo alle quali siamo costretti a muoverci.