di Domenico d’Amati
La sorte subita da Oliviero Beha dimostra ancora una volta che spesso le vicende lavorative del giornalista assumono un interesse di portata generale perché si riflettono sulla libertà di informazione, che ha la sua prima e fondamentale garanzia nel corretto funzionamento dello Stato di diritto. Beha è stato destinato al TG3 come editorialista con un ordine di servizio del direttore generale della Rai in seguito a una sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato l’azienda a fargli svolgere le sue mansioni, delle quali era stato illegittimamente privato senza motivi di natura organizzativa, dopo alcune iniziative da lui assunte per contrastare fenomeni diffusi nel mondo dello sport.
L’improvvisa decisione aziendale di non dare più esecuzione al provvedimento del direttore generale ha comportato anche l’inottemperanza all’ordine del giudice.
Qualcosa di simile a quanto verificatosi a Melfi, con l’aggravante che la Rai è un’azienda pubblica i cui responsabili sono doppiamente tenuti al rispetto della legge e del costume democratico.
Si è giustamente detto che mantenendo i sindacalisti Fiat lontani dalle catene di montaggio Marchionne ha leso la loro dignità di lavoratori, che è tutelata dall’art. 41 della Costituzione. Non per nulla questa fondamentale disposizione rientra fra gli obiettivi di “riforma” enunciati da Berlusconi.
La dignità del giornalista coincide con l’esercizio del suo diritto-dovere di informare il pubblico nel rispetto della legge professionale.
Nei poteri del direttore di testata non è compreso quello di bandire dal lavoro un suo collega. Il bando equivale ad una sorta di censura ad personam. Se un giornalista viene meno ai suoi doveri lavorativi – e questo non è il caso – l’azienda può tutelarsi contestandogli specifici addebiti e provando la loro fondatezza.
La messa al bando non è prevista né dallo Statuto dei Lavoratori né dal contratto nazionale di lavoro giornalistico. Anzi, come è stato affermato dalla Corte Costituzionale, “il direttore di testata ha il fondamentale dovere di garantire che l’attività affidata alla sua direzione e responsabilità si svolga in quel clima di libertà di informazione e di critica che la legge vuole assicurare come necessario fondamento di una libera stampa”.
Negare a un giornalista la tutela per lui prevista dalla legge significa spingerlo a cercare altrove impropri meccanismi protettivi. In tal modo alle regole dello Stato di diritto si sostituiscono quelle fondate sull’appartenenza.
Tale modo di procedere – ha affermato la Cassazione – è certamente lesivo della personalità dei lavoratori, “perché colpisce il loro diritto ad essere valutati per le loro qualità professionali e personali, ledendo la libertà di non vincolare la propria attività all’appartenenza a questo o a quel gruppo politico e di non collocarsi in questa o in quell’area di influenza.”
Roma, 1 settembre 2010