di Marco Curatolo
Con l’annuncio della sospensione della sentenza di lapidazione contro Sakineh Mohammadi Ashtiani, arrivato oggi dal Ministero degli esteri iraniano, pare raggiunto un primo e importante, benché provvisorio, obiettivo della grande campagna internazionale di mobilitazione in favore della quarantatreenne iraniana, condannata a morte per adulterio. È tuttavia importante non cantare vittoria, non abbassare la guardia e vigilare fino a quando la sospensione non verrà trasformata in un ribaltamento completo del verdetto, tale da salvare davvero la vita di Sakineh. Il rischio ancora molto concreto, infatti, è che il riesame del caso possa portare semplicemente a un cambiamento nella modalità dell’esecuzione della sentenza (impiccagione invece di lapidazione); e che quindi, come altre volte è successo, passato il momento della massima attenzione internazionale, la condanna a morte venga comunque eseguita. Non svolgeremmo fino in fondo il nostro compito se un annuncio delle autorità iraniane fosse sufficiente a tranquillizzarci. C’è, tuttavia, anche dell’altro.
La vicenda di Sakineh occupa da settimane le pagine dei giornali. La sua gigantografia campeggia nelle piazze del mondo intero. Appelli, iniziative di solidarietà, campagne (tra cui quella di Articolo 21 a Venezia, il 9 settembre) si sono susseguite con la speranza di salvarle la vita. Ma il clamore che il suo caso sta suscitando, e l’ansia di strapparla a un destino intollerabile, rischiano di lasciare nell’ombra le storie di tante altre donne iraniane, prigioniere politiche nelle carceri del paese. Donne che hanno sfidato con coraggio e passione il regime, battendosi per i diritti umani, per il rispetto della legalità, per i bambini svantaggiati, per superare la discriminazione di genere. Stanno tutte pagando un prezzo altissimo, pari alla generosità del loro slancio. Ed è doveroso, proprio mentre si lotta per la salvezza di Sakineh, non dimenticare queste sue “sorelle”: perché solo in un Iran in cui la voce di tante donne coraggiose possa tornare libera, essere ascoltata e contribuire al rinnovamento, si può sperare che pratiche efferate come la lapidazione delle adultere finiscano nell’armadio dei cattivi ricordi o che, addirittura, si arrivi a bandire dall'ordinamento la pena di morte."
Ne abbiamo già parlato su queste stesse pagine: proprio mentre la mobilitazione per Sakineh riempiva le strade di mezzo mondo, il 4 settembre scorso Shiva Nazar Ahari, 26enne giornalista e blogger, membro del Comitato dei Reporter per i Diritti Umani, era sotto processo presso il tribunale rivoluzionario con l’accusa di Moharebeh (guerra contro Dio), un crimine che può comportare il massimo della pena, la sentenza di morte. Shiva è in carcere dal 20 dicembre 2009, ha trascorso mesi in isolamento in una cella tanto stretta che non aveva spazio nemmeno per distendere le gambe. Era stata già arrestata due giorni dopo le contestate elezioni presidenziali del giugno 2009, e rilasciata su cauzione due mesi e mezzo dopo. Personaggio notissimo negli ambienti del dissenso in Iran, Shiva paga la sua dedizione entusiasta, appassionata e temeraria alla causa dei diritti umani, e il fatto di essere sempre stata pronta a correre in soccorso dei prigionieri politici per tutelare i loro diritti e reclamarne il rispetto. L’ansia di conoscere l’esito del processo a suo carico è grande, ma bisognerà aspettare almeno due settimane. (Questo l’appello di Amnesty International in suo favore: http://www.amnesty.it/iran_12_giugno_prigionieri_coscienza_Shiva_Nazar_Ahari).
Lo stesso 4 settembre è finita i carcere Nasrin Sotoudeh. Nasrin non è solo, in quanto avvocato, la legale di numerosissimi prigionieri politici, ma anche un’attivista per i diritti delle donne in Iran, con alle spalle una carriera fatta di attenzione ai problemi dell’infanzia e, soprattutto, ai minori condannati a morte. Alcuni mesi fa la sua voce si era levata forte e chiara per accusare le autorità che avevano impiccato un suo cliente, Arash Rahmanipour, prigioniero politico a sua volta, all’alba e senza che lei ne fosse stata avvisata. Appena pochi giorni prima di essere arrestata, Nasrin, in un’intervista all’International Campaign for Human Rights in Iran, aveva messo in guardia contro l’accanimento che le autorità iraniane stavano dimostrando nel perseguitare e arrestare i pochi attivisti e difensori dei diritti umani che ancora abbiano il coraggio di svolgere il proprio lavoro. “Stanno facendo di tutto – diceva – per limitare ulteriormente gli spazi operativi per la difesa dei diritti umani. Il loro obiettivo è eliminarli del tutto.” Tanto Shiva Nazar Ahari quanto Nasrin Sotoudeh sono state attive sostenitrici della campagna One Million Signatures, un grande movimento nato all’interno della società civile iraniana con lo scopo di eliminare dall’ordinamento del paese le leggi che discriminano le donne.
In carcere da molti mesi, a Evin (Teheran), c’è Hengameh Shahidi. Giornalista e blogger con gravissimi problemi cardiaci, Hengameh si trovava a Londra per un periodo di studio e lavoro, quando ha deciso di tornare nel suo paese per partecipare alla campagna elettorale e sostenere il candidato Mehdi Karoubi. All’indomani delle elezioni, dopo essere stata braccata per giorni e costretta a cambiare tetto ogni notte per sfuggire alla cattura, è stata arrestata. Rilasciata dopo un lungo sciopero della fame, Hengameh è ritornata in prigione in primavera per scontare una pena a 6 anni divenuta, nel frattempo, definitiva. Ha bisogno di prendere ogni giorno 18 pillole, e recentemente le è stato proibito anche l’uso del telefono del carcere (anche nel caso di Hengameh c’è un appello di Amnesty al quale si può aderire: http://www.amnesty.it/iran_12_giugno_prigionieri_coscienza_Hengameh_Shahidi).
Con lei, a Evin dal 1° dicembre 2009, c’è Mahdieh Golroo, attivista per i diritti degli studenti e membro del Consiglio per il Diritto allo Studio. Pochi sanno che in Iran gli studenti politicamente impegnati vengono prima segnalati dalle autorità, poi ammoniti, sospesi, infine arrestati ed espulsi per sempre dagli atenei. Viene loro impedito di continuare a studiare, in sostanza li si spinge in una sorta di binario morto della vita. Mahdieh, che con altre compagne e compagni ha conosciuto questa sorte, ha contribuito alla nascita di un’organizzazione che tutelasse gli studenti “segnalati”. L’hanno arrestata insieme al marito – un modo per ricattarla e spingerla a confessare colpe mai commesse. Non ha confessato e sconta una pena a 2 e anni e 4 mesi.
Bahareh Hedayat, anche lei appartenente al movimento studentesco, di anni da scontare ne ha 9 e mezzo (ma si spera in una riduzione della pena in appello). È finita in prigione per avere indirizzato un messaggio all’Unione degli studenti europei. Ma la sua vera colpa è stata quella di avere contribuito a far conoscere al mondo le gravi responsabilità del regime nell’efferato attacco ai dormitori dell’Università di Teheran (15 giugno 2009) nel corso del quale molti studenti, sorpresi nel sonno, vennero assassinati dalle milizie basij.
Atefeh Nabavi, studentessa a sua volta, ha il primato di essere stata la prima donna ad avere subito una condanna tra i prigionieri politici arrestati dopo le elezioni. Partecipò, insieme a milioni di suoi connazionali, alla grande protesta di piazza del 15 giugno 2009. Ebbe la sfortuna di essere arrestata. Da allora non è più uscita da Evin, e sconta una condanna a 4 anni.
Sono queste – ma l’elenco potrebbe continuare – le “sorelle di Sakineh”. Battersi per la vita di Sakineh Mohammadi Ashtiani non può voler dire dimenticarsi di loro, detenute nelle prigioni del regime per ragioni politiche. Deve, al contrario, diventare occasione per portare alla ribalta le loro storie e per chiedere al regime la loro liberazione, incondizionata e immediata.
Un nuovo Iran arriverà anche, o soprattutto, grazie a donne come loro.