di Emanuele Piano*
Notte fra giovedì e venerdì della settimana scorsa. E' all'incirca mezzanotte in Via dei Villini a Roma, placido quartiere di ambasciate e consolati. A turbarne la tranquillità i lampeggianti, le camionette e gli agenti delle forze dell'ordine in assetto anti-sommossa per un'operazione antidroga. Con caschi, scudi e manganelli i poliziotti fanno ingresso in un edificio sede dell'ex ambasciata somala in Italia. Da anni è noto che lo stabile è l'unica casa rimasta alle decine di somali con asilo politico lasciati senza alcuna assistenza dal governo italiano. Le forze dell'ordine mandano avanti i cani e, secondo i testimoni, non esitano a svegliare gli occupanti dello stabile a colpi di manganello e di epiteti come “negro di merda”. Gli agenti forse pensavano che nessuno parlasse italiano – visto che nemmeno un interprete è stato associato all'operazione – ma lì dentro c'era gente che in Italia c'è nata, vi è stata adottata o ci vive da 20 anni. Ad un ragazzo è stato rotto un dente e ad un altro il naso nonostante nessuno abbia opposto resistenza. “E' stata una nostra scelta non opporci alla polizia”. I testimoni parlano di porte buttate giù, di documenti e passaporti diplomatici presenti all'interno dell'ambasciata prelevati dagli agenti e di quasi duecento persone caricate sui pullman con destinazione la Questura. Anche la vecchia targa con l'indicazione dell'ambasciata della Repubblica democratica somala è stata staccata dalle forze dell'ordine. Della droga, che avrebbe giustificato il blitz all'interno dello stabile sino al 2008 riconosciuto come sede diplomatica dal nostro Ministero Affari Esteri, nessuna traccia. Gli accertamenti sui fermati hanno invece dato un esito scontato: tutti erano rifugiati con regolare permesso di soggiorno.
C'era una volta la Somalia, Paese del Corno d'Africa ed ex-colonia italiana. Una guerra civile fratricida in 20 anni è riuscita a disintegrare uno Stato e le sue istituzioni. Le macerie della capitale Mogadiscio, ridotta alla stregua di quei film post-olocausto nucleare, sono l'emblema di un popolo in fuga dalla propria rovina. Una guerra che porta via amici, figli e parenti, che ti porta ad abbracciare un fucile per scelta o mancanza di essa e che infine di detta la via del deserto. Per il Sudan, il Sahara e la Libia. Una barca di fortuna, il mare e l'approdo in Italia. L'asilo politico concesso con facilità e poi il nulla. Nessun sostegno al reddito, nessuna casa, niente. Il passaggio obbligato per tutti i somali diventa quindi l'unico lascito del governo che fu: l'ex ambasciata somala a Via dei Villini.
Al cancello non ci fanno entrare. Due ragazzi escono con tono minaccioso. Ce l'hanno con i giornalisti dediti al pellegrinaggio della loro miseria. "Tutti vogliono entrare a vedere, ma poi nessuno ci viene ad aiutare". Non è aria e non è difficile capire perché. Basta navigare su internet per scorgere una realtà di totale degrado. Senza acqua, né luce. Materassi accatastati uno a fianco all'altro in condizioni igieniche disastrose. Trecento persone ammassate al freddo senza riscaldamento e senza servizi sanitari. Nessuna traccia di organizzazioni umanitarie, del Comune di Roma o delle Nazioni Unite. Il risentimento è tanto ed è molto comprensibile.
Ci spostiamo a Stazione Termini, diventata ormai un Corno d'Africa in miniatura. Decine di somali, eritrei ed etiopi affollano i portici, le strade ed i piccoli internet point da dove inviano le rimesse a casa. E' qui che incontriamo i ragazzi dell'ambasciata somala. Abderisaq ha una ventina d'anni. Da grande vuole fare il regista ed è venuto in Italia per studiare ed avere una vita migliore, "ma nessuno ci aiuta. Vorrei studiare l'italiano, andare a scuola ed invece sono lasciato in mezzo ad una strada". Come per tutti gli altri, il viaggio verso l'Europa è stato un incubo. "Eravamo 820 somali in un solo carcere libico. I libici ci dicevano di non continuare il viaggio nella terra degli infedeli. Un giorno abbiamo deciso di tentare in massa la fuga. Abbiamo cominciato a correre verso il deserto e i poliziotti hanno cominciato a sparare...". L'obiettivo di Abderisaq, come di tutti gli altri somali arrivati in Italia, è quello di continuare il viaggio verso un altro Paese europeo. Regno Unito, Svezia, Olanda, Norvegia... purché non sia l'Italia. Ci sono però poi i controlli alla frontiera, il registro delle impronte digitali ed un governo, quello italiano, che si dice sempre disposto a riprendersi i rifugiati. Senza però specificare che quello che altrove è la norma – una casa, un assegno mensile, la scuola per imparare una nuova lingua ecc. – da noi è pura e semplice utopia.
Anche Hussein ha provato a restare in Svezia. Da sotto i suoi baffetti incipienti da adolescente risuonano parole in svedese ed in uno stentato inglese. Il fisico minuto e la voce flebile sono quelli di un ragazzino che tra tre mesi compierà 17 anni. Arrivato in Italia due anni fa ha proseguito il proprio viaggio verso Stoccolma. Una casa, un assegno di 700 euro mensili e l'iscrizione ai corsi di svedese. Ma non è durata molto la felicità. Le impronte digitali lo hanno tradito. In Svezia sono venuti a prelevarlo a scuola. Non gli hanno dato nemmeno la possibilità di andare a prendere i propri documenti ed è stato messo su un aereo diretto a Roma. Oggi è rimasto senza alcun documento. Hussein però è un minorenne bugiardo. All'arrivo a Lampedusa – sotto consiglio di cattivi maestri – ha mentito sulla propria reale età. "Mi avevano detto gli altri somali che così sarei stato più libero di continuare a viaggiare in Europa. Ho detto di avere 21 anni". Questa bugia gli è costata la mancata assegnazione ai servizi sociali per i migranti minorenni ed un trattamento da adulto per chi adulto non è. Come lui almeno altri quattro bambini vivono nell'ex ambasciata somala.
Chi si è stancato è invece Abdullahi. Arrivato all'aeroporto di Fiumicino con un visto falso comprato per un paio di migliaia di dollari è finito anche lui nel calderone di Via dei Villini. "Sono decine i somali che sono in Italia anche da 20 o 30 anni. Tutti sono finiti a stazione Termini a sprecare le proprie giornate ad ubriacarsi perché hanno perso ogni speranza. Io non voglio fare la stessa fine". Anche Abdullahi ha viaggiato per l'Europa alla ricerca di una sistemazione migliore dell'Italia, ma è sempre stato rispedito al mittente dopo pochi mesi. "Non ho lasciato la mia famiglia in Somalia per questo degrado. Appena avrò un po' più di soldi tornerò a casa dai miei figli".
Dopo essere stati rilasciati dalla Questura i somali sono tornati a dormire sui cartoni accanto al muro di cinta della loro unica casa. Nessuno dal Comune gli ha offerto un alloggio alternativo ed anche la Polizia ha abbandonato il presidio davanti allo stabile occupato. I somali si sono ripresi la loro ambasciata.
*dal Fatto quotidiano