di Roberto Natale*
C’è una ragione immediata, evidente, che tiene insieme le decine di associazioni, movimenti, sindacati che ieri si sono ritrovate nella sede della Federazione della Stampa: contrastare i tagli che stanno punendo il mondo della conoscenza nelle sue più diverse espressioni. Informazione inclusa, vista la scure che Tremonti è tornato a far calare - anche in spregio della volontà del Parlamento - contro i giornali cooperativi, di partito, di idee. Ma per combattere nel modo più efficace questa azione a difesa del sapere bisognerà saper maneggiare con cura alcune parole, non prestarsi a pronunciarle in modo acritico e subalterno al pensiero dominante. Il termine “mercato”, innanzitutto: è inaccettabile che venga ancora usato come se indicasse un giudice oggettivo e imparziale, titolato a decidere della vita e della morte di alcune voci, dimenticando da quali giganteschi squilibri (nella ripartizione della pubblicità a vantaggio del quasi-monopolio tv, ad esempio) sia segnato il concreto mercato italiano. E poi le parole “intervento pubblico”, che troppo distrattamente lasciamo associare a sprechi clientelari: c’è in tutti i paesi europei, l’intervento pubblico a sostegno della conoscenza, e non può essere rovesciata su chi da anni chiede pulizia la responsabilità delle mancate riforme. Passa per “rigorista” il ministro Tremonti, che invece non sa o non vuole tagliare le unghie ai furbi, mentre è da questa parte, dalla parte di questo movimento multiforme, che la parola “rigore” può essere detta in modo credibile.
Ma c’è un’altra ragione, più profonda, che tiene insieme voci e settori così diversi. Ed è una ragione che si impone con una chiarezza simbolica abbagliante, nelle ore in cui siamo sommersi dalle cronache su Ruby, su Arcore e il condominio dell’Olgettina. Al netto di ogni valutazione giudiziaria (che tocca ai magistrati), politica e persino etica, c’è un dato “culturale” che si impone: le ragazze che popolano le intercettazioni sono, da vent’anni, la ragazza-tipo della tv italiana, la specie umana largamente più diffusa nei pomeriggi e nelle serate dei palinsesti privati e pubblici, un modello riproposto con martellante coerenza fino a diventare aspirazione di vita, ideale diffuso, ideologia. E’ il “Drive In” in terra, ha scritto qualcuno. Del resto, siamo il Paese in cui è da poco arrivato al Ministero dello Sviluppo Economico Paolo Romani, che prima di entrare in politica con Berlusconi è stato editore televisivo del sexy-show “Colpo grosso”: ed è diventato ministro non nonostante il suo passato, ma perché quello è il suo passato.
Di questo stiamo parlando, quando parliamo di tagli alla conoscenza. Certo, i posti di lavoro di attori, giornalisti, musicisti, ricercatori sono importanti. Ma in discussione, al fondo, c’è qualcosa di assai più rilevante: il sistema di valori che vogliamo regoli la nostra convivenza. E’ in gioco un’idea dell’Italia, si potrebbe persino dire ora che le imminenti celebrazioni del 150esimo dell’Unità inducono a ragionare sui legami che ci fanno essere comunità. Un’Italia di cittadini consapevoli e critici, oppure di “adulti-bambini” che vanno intrattenuti, distratti, e stimolati solo dalla cintola in giù.
Il 3 ottobre del 2009, in piazza del Popolo, in quella straordinaria manifestazione a difesa della libertà dell’informazione, un boato della folla, rivelatore e confortante, aveva accolto una frase arrivata dal palco: “non dobbiamo più accettare che la tv distrugga al pomeriggio il lavoro che le insegnanti fanno al mattino a scuola”. E’ questo il nodo: la necessità di una azione culturale che dovrà andare ben oltre la sacrosanta opposizione ai tagli. E’ una battaglia dall’esito per fortuna ancora aperto. Perché anche nel paese allevato da una monocultura tv, capita poi che una trasmissione di pura parola, di semplici elenchi, dove i ricercatori hanno lo spazio solitamente riservato alle modelle, sbanchi le rilevazioni di ascolto. Ce la possiamo giocare. Ce la dobbiamo giocare.
* Presidente Fnsi, articolo pubblicato su "Il Manifesto" del 20 gennaio 2011
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