di redazione
Informazione: autonomia, pluralismo e qualità. Il ruolo dell’editoria cooperativa e non profit
Relazione di Mario P. Salani
La situazione dell’informazione in questo paese, ma non solo, è molto difficile. La volontà di controllarla, imbavagliarla è diffusa e solletica il poter, la pubblica amministrazione e i cosiddetti poteri forti.
La denuncia di malefatte diviene “gogna mediatica”; la rappresentazione di imbrogli deve essere impedita; le fonti inaridite o proibite, mentre i reati di corruzione aumentano del 30% in un anno; il comportamento di una grande impresa non può essere censurato.
Una società in cui cresce, come vedremo, la “discrezionalità” in modo più che proporzionale alla perdita di qualità definitoria e sanzionatoria dell’apparato normativo, non può accettare controlli o contestazioni: diventano ingerenze e violazione dei diritti soggettivi, della liceità incondizionata della persona. Non è un problema solo di questo paese, ma è sempre più diffuso –si veda il caso dell’Ungheria- legato all’esperienza democrazie autoritarie e autoritativa.
Nel nostro paese questo problema si accompagna alle condizioni del mercato della comunicazione caratterizzato da posizioni oligopolistiche che intersecano tutti i canali e condizionano in modo irresistibile perfino la qualità del prodotto informativo. La pubblicità è l’asimmetria più vistosa e condizionante. Talmente forte il ruolo che non è una battuta se si dice che la riforma del settore dell’informazione è la riforma del mercato pubblicitario dei media. In nessun paese la pubblicità drena risorse per la televisione come nel nostro; in nessun paese spot, sponsorizzazioni, product placement e quant’altro costituiscono un’offerta pubblicitaria così ampia da determinare livelli di prezzi che svolgono un’azione di dumping nei confronti di tutti gli altri mezzi, ma anche all’interno dello stesso mezzo televisivo. Vengono i brividi a pensare che cosa sarebbe in grado di fare Publitalia se Mediaset potesse acquistare anche un grande quotidiano (problema non ipotetico se la proroga del divieto previsto dalla Gasparri è rimasto al 31 marzo).
Ma non bisogna dimenticare neppure il problema dei “contenuti” sui quali il monopolista privato, alla ricerca spasmodica di target sempre più vasti, esercita un’azione al ribasso e alla banalizzazione che si riflette come tutto il resto anche sull’offerta pubblica.
Per questo il primo problema che poniamo è quello dell’informazione tra autonomia e un mercato così fatto e sul ruolo pubblico per garantire un minimo di pluralismo dei contenuti e della pluralità dei soggetti.
Perché, un mercato e un’offerta così omologata fanno strame dell’art. 21 della Costituzione, pregiudicano la professionalità dei giornalisti sempre più ridotti ad ufficio stampa delle proprietà irrequiete e del potere politico e partitico. E che sia così, basta ricordare che l’investimento nell’informazione non solo non rende ma fa perdere (è sufficiente guardare al valore di Borsa del Corriere della sera o anche del Sole24 ore) e basta richiamare la vicenda del sostegno all’editoria cooperativa e non profit.
E qui veniamo a quelli che possono sembrare problemi di bottega, ma che noi crediamo, invece, esemplari proprio del rispetto e di come si corrisponde a quell’art. 21 della Costituzione.
Quando a metà dicembre abbiamo convocato la Direzione di Mediacoop, avevamo iniziato l’incontro dicendo: “anche quest’anno siamo riusciti a salvare il Fondo per l’editoria e quindi la sopravvivenza delle testate cooperative, critiche e non profit”. E sulla base di questo convincimento avevamo deciso di convocare questo congresso a metà Febbraio. Come vedete abbiamo dovuto rinviarlo ad oggi perché pochi giorni dopo il Ministro Tremonti si è rimangiato quanto Lui stesso aveva concordato con il Parlamento e ha scippato 50 dei 100 Mil approvati. Non potevamo convocare un Congresso nell’incertezza su quanto avveniva in Parlamento.
Se dovessimo trovare una parola che accumuna tutti questi anni che vanno dal primo Congresso di Mediacoop ad oggi, non potremo che parlare di “perenne stato di incertezza”, di un processo di progressiva precarizzazione del settore. Abbiamo costantemente rincorso decisioni vessatorie, cercando di contestarle in un deriva che non poteva che andare al “ribasso”. In cinque anni sono stati fatti tagli per più di 400 milioni oltre i due terzi del Fondo per l’Editoria. Abbiamo subito decisioni solo apparentemente riconducibili a politiche di risanamento della spesa pubblica che, in realtà, se lette nel loro insieme, mostrano una politica di avversione a ogni forma di processo informativo che non sia controllato o controllabile. I tagli non centrano; l’obiettivo è una politica di sostegno che sia nella discrezionalità dell’Esecutivo: lo dimostrano il ridimensionamento del ruolo del Parlamento, garante costituzionale delle imprese di questo settore ma anche la progressiva amministrativizzazione delle procedure sempre più in mano dell’Esecutivo (l’ultimo esempio è l’aver demandato ad un atto regolamentare la definizione delle spese ammissibili a contributo) o, peggio, la privatizzazione delle negoziazioni (come è avvenuto con l’abolizione del sostegno alle spese postali e la definizione con trattativa tra le parti delle medesime tariffe). Ma che si tratti, così come nel campo della produzione culturale, di una strategia che vuole ricondurre al rapporto diretto con il Potere la possibilità di disporre delle risorse necessarie e non di politiche di riduzione dei costi, è rilevabile anche al di la del settore dell’editoria.
La situazione nel campo dell’emittenza, infatti, non è molto diversa: ai tagli si accompagnano incertezze normative e regolamentarie a fronte di un oligopolio soffocante di per sé, per il controllo sulla pubblicità –come detto- e per le politiche di obiettivo sostegno che riceve da parte del Governo. Il risultato è una profonda crisi in cui versa l’emittenza locale sia televisiva, alle prese con una transizione al digitale rovinosa, che quella radiofonica locale sempre più preda dei circuiti nazionali. In entrambi i settori è sempre più difficile assicurare la sopravvivenza delle esperienze locali più circoscritte e, proprio perché più radicate, più profondamente utili alla costruzione e difesa delle identità comunitarie.
Mediacoop ritiene che così non sia possibile andare avanti. Occorre intervenire su questo stillicidio di provvedimenti che impediscono politiche produttive che consentano alle testate adeguamenti patrimoniali e tecnologici.
Senza una svolta profonda, la precarietà ha una solo esito naturale: la riduzione dell’offerta informativa e comunicativa.
Mediacoop ritiene che la qualità della democrazia di un paese sia nella ricchezza delle rappresentazioni che lo stesso riesce a dare di sé e delle sue articolazioni territoriali e comunitarie. Una buona informazione è una informazione, dunque, che include, che è libera da condizionamenti di proprietà o di mercato, critica e valoriale, professionale.
Mediacoop ritiene che in questa visione dell’informazione, il modello di cooperazione di giornalisti così come elaborato con lungimiranza e forse un po’ di utopia dalla L. 416 sia uno strumento più che adeguato da conservare e valorizzare. L’autogestione del processo informativo è infatti una condizione, anche se non la sola, per assicurare un’informazione autonoma, risultato di un processo costruttivo che passa attraverso il coinvolgimento e, quindi, capace di valorizzare le professionalità concorrenti. La forma particolarmente rigida che la legge ha previsto, se mette in difficoltà la cooperativa di giornalisti in un mercato estremamente più flessibile e “disinvolto”, è, comunque, garanzia di qualità informativa proprio per i vincoli di professionalità e autonomia dal capitale che la cooperativa implica.
Ma queste qualità sono tipiche della forma cooperativa più in generale e non è un caso che si è ricorsi ampiamente a questa forma quando si sono costituite le radio libere o le cooperative librarie ed editoriali universitarie, o l’hanno assunta larga parte delle compagnie teatrali alla ricerca di un modo diverso di fare teatro e cultura teatrale. Molti di noi sono convinti che questa sia la forma vocata per tutte le attività immateriali sia sul lato dell’offerta sia su quello della domanda.
Così come siamo convinti che nell’immateriale non tutto sia riconducibile o esauribile nel mercato: non tutti i bisogni sono “domanda”e non tutte le risposte sono “offerta” cioè commercializzabili e riconducibili nella logica della razionalità utilitaristica: o se si vuole non tutto è interpretabile in termini di efficienza.
Per questo quello dell’immateriale, della cultura e dell’informazione non è, né può essere, un mercato nel senso liberista del temine. Basta, per convincersi, ricordare che l’esito del cosiddetto mercato autoregolato è il monopolio e questo contrasta con il principio democratico della pluralità dei soggetti e del pluralismo delle posizioni. Questo vale anche per la formazione come per la produzione culturale.
Non ci sono dunque ragioni conservative o di rendita nella richiesta di confermare l’impegno dello Stato per i settori della cultura e dell’informazione, ma esclusivamente la necessità, non a caso riconosciuta da tutti gli stati occidentali, di riequilibrare il mercato e di garantire il pluralismo.
È per questo che continuiamo a chiedere con forza una riforma di sistema; per tutte le ragioni dette ma anche per la necessità di leggere e ricomprender tutti i nuovi media e le modifiche profonde che producono in termini di contenuti, di protezione dei diritti di autore, di responsabilità.
Così come va detto con altrettanta chiarezza che non si può ritenere che la riforma sia esaurita o esauribile con il Regolamento, anche se questo molto poteva fare in termini di qualificazione della spesa e introduzione di criteri che migliorassero la qualità e efficacia dell’offerta informativa, ma soprattutto poteva essere un momento di riordino di tutta la legislazione: una sorta di “testo unico” sulle politiche di spesa .
Invece anche questo strumento ha conservato ambiguità e ha introdotto alcuni peggioramenti, non discussi con gli operatori, che penalizzano invece di aiutare le esperienze minori e introducono ulteriori rigidità come se quelle previste dalle leggi non fossero già sufficienti.
Senza un quadro generale nel quale si affrontano gli squilibri del mercato, che cosa voglia dire pluralismo e pluralità delle fonti, il rapporto tra informazione e democrazia, il Regolamento ha assunto la funzione , inutilmente contrastata dal Parlamento di strumento che accompagna un settore ad uscire dal sostegno pubblico, ritenendolo accessorio, una sorta di “rendita”. Un taglio qua, una riconsiderazione più restrittiva dei costi ammissibili, qualche parametro abnorme che aiuta i più grandi e penalizza i più piccoli e la platea degli aventi diritto si riduce, si dimezza, si pongono le condizioni per un altro po’ di licenziamenti.
Non era questo lo spirito con cui Mediacoop si era prodigata in questi anni: far crescere la trasparenza, eliminate i casi di abnorme e ingiustificato ricorso al fondo, lettura attenta dei parametri in modo da privilegiare la professionalità e la correttezza dei rapporti di lavoro; ma non certo concorso all’asfissia delle imprese. Per noi, vale la pena di ripeterlo, in sostegno non è una “rendita” ma un diritto che deriva da come la legge ha profilato questo particolare tipo di editore puro.
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Chiediamo al governo e alle forze politiche di riaprire il confronto. Un confronto che non può non cominciare dai nuovi media che sono visti più come concorrenti ( per cui occorre mettere picchetti e limiti) che come risorse e quindi lasciati ad una selezione darwiniana e ad una indeterminatezza che è il presupposto per interventi che, a quel punto non potranno che essere di “razionalizzazione”, cioè sostanzialmente “repressivi” .
C’è, invece, bisogno di una definizione di prodotto informativo del tutto nuova, di politiche generali di indirizzo che aiutino lo sviluppo e di interventi che armonizzino i diversi media e ne esaltino la loro specializzazione.
C’è un problema grave anzi ci sono problemi gravissimi per l’emittenza. Questa sciagurata transizione al digitale si è mostrata quella che alcuni di noi paventavano: una riduzione reale del pluralismo e della pluralità delle fonti.
D’altra parte si è mai visto al mondo un monopolista che suggerisce una legge che può ledere il suo monopolio?
La situazione è talmente difficile che non si sa da dove prenderla. Forse il modo più immediata è richiamare in fatto che siamo alla richiesta e alla dichiarazione dello stato di crisi di intere regioni. E a riconferma che uno dei principi di questo Governo è salvaguardare i grandi e penalizzare i più piccoli basta ricordare che, per preservare il duopolio, le frequenze per la banda larga le sta cercando prevalentemente tra le emittenti minori.
In questo quadro se da un lato è certamente positivo che siano state assegnate un poco di risorse al Ministero delle attività produttive per le emittenti, appare del tutto negativo il rifiuto di stanziare le risorse, da gestire alla Presidenza del Consiglio, necessarie per garantire la qualità dell’informazione. Si trattava delle risorse per acquisire servizi informativi , cioè servizi che innalzano la qualità dell’offerta delle emittenti più piccole. Ma la volontà del Governo è palese: assicurarsi il consenso delle tv locali più grandi e non volere concorrenti di qualità sul territorio.
E l’emittenza radiofonica è nelle stesse condizioni. La distanza tra i circuiti più grandi e le emittenti più piccole cresce. La sopravvivenza di queste è sempre più precaria, pregiudicando un’esperienza che meglio di qualunque altra rappresenta lo strumento di dialogo diretto all’interno della comunità.
La selezione “naturale”, si fa per dire, è drammatica.
Qui non siamo nel mercato in cui la razionalizzazione sta nelle dimensioni aziendali e nella competitività sui costi: qui siamo nel campo del costruzione di un narrazione identitaria e, in quanto tale, veicolo di costruzione dei vincoli solidali, qualunque sia la comunità che li origina (perfino una squadra di calcio), siamo nel campo di un’informazione che vuole dire costruzione di consapevolezza, di sicurezza, di partecipazione.
Le piccole radio così come le piccole televisioni locali sono un pezzo dell’identità nazionale e della sua articolazione antropologica e culturale.
Così come i piccoli editori e i piccoli librai non sono uno spreco, non vanno annientati: i primi perché possono essere un concorrente che costringe ad alzare il prezzo per conquistarsi un autore; così come i librai non sono un pezzo di inefficienza distributiva (così come non lo solo le piccole sale di quartiere). Questi non sono da rottamare come quel pezzo di mondo a scarsa mobilità che li frequenta, così come non è solo una necessità di razionalizzazione assorbire gli editori per poi, al massimo, trasformarli in marchi che fingono la disparità delle proposte editoriali.
Entrambi escono malconci da quella legge che regolamenta il prezzo di vendita dei libri. Ancora una volta contrariamente alle richieste si è operato, di fatto, a vantaggio dei più grandi e soprattutto di quelli con processi di verticalizzazione spinta.
Per le cooperative editoriali universitarie tutto questo si affianca ad una situazione di grande difficoltà per le turbolenze di fondo della politica universitaria, sia sul lato della ricerca, influenzata dai problemi di validazione scientifica e dalla correlata influenza sui percorsi di carriere a stipendiali dei docenti, sia sul lato della didattica per i processi di crescita della telematica. Senza dimenticare la sciagura delle fotocopie aggravata, se possibile, dalla sostanziale legalizzazione indotta dall’accordo con la SIAE.
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Da questa panoramica emergono gli indirizzi che proponiamo al Congresso di assumere e di assistere.
Mediacoop ribadisce l’esigenza di un provvedimento di riforma generale del sistema della comunicazione che parta dalla ridefinizione del prodotto editoriale, garantisca la pluralità degli attori nei diversi canali e riapra il mercato più generale della pubblicità, Occorre, nell’ambito di questo disegno, che sia salvaguardata e valorizzata la forma cooperativa come realizzazione dell’editore puro, assicurandole il sostegno necessario che deriva dai limiti che la legge impone alla stessa forma.
Mediacoop è consapevole che una proposta complessiva ha scarse possibilità di essere percorsa in questo momento e per questo chiede al Parlamento di farsi promotore almeno di un intervento che non abbia l’ambizione della riforma ma che serva a ridare dignità di impresa al settore, provi a correggere alcune derive che escludo invece di includere, che abbia attenzione alla molteplicità dei canali e alla necessità di una loro evoluzione tecnologica.
Le richieste per un provvedimento di urgenza. Noi chiediamo che per l’Editoria si preveda una ricostituzione del Fondo che non debba essere negoziato anno per anno, in una rincorsa che comincia a giugno e finisce a febbraio dell’anno seguente. Chiediamo che sia decisa la sua consistenza triennalmente in modo da consentire alle cooperative disegni programmati di produzione e investimenti. Per questo obiettivo siamo pronti ad accettare il tetto dl 2008 e a introdurre ulteriori criteri qualificanti per ridurre la platea degli aventi diritto in coerenza con quanto prevede la Costituzione.
Ai fini della ricostruzione del Fondo, proponiamo che lo stanziamento pubblico che assicura la sopravvivenza del modello di editore puro e il suo ruolo di attore nel pluralismo informativo previsto dalla costituzione sia integrato da una sorta di “tassa di scopo” che abbia la funzione di riequilibrare il mercato.
Suggeriamo che i contributi siano riconosciuti per un ammontare che sia proporzionale alle risorse produttive presenti in cooperativa, convinti che la qualità del prodotto non possa che essere legata alla professionalità dei produttori, giornalisti e poligrafici.
Chiediamo che sia ricostituito il diritto soggettivo alla percezione del fondo per i tre anni della sua stabilizzazione.
Poiché crediamo che l’esperienza della cooperazione tra giornalisti sia stata utile non solo come promotore di pluralismo, ma anche come occasione per trasformare gli esuberi delle ristrutturazioni delle aziende editoriali in protagonisti dell’informazione indipendente e di qualità, suggeriamo che si preveda l’esenzione dal vincolo di cinque anni ai fini dell’accesso al Fondo, per tutti quei nuovi soggetti cooperativi che nascono da crisi di aziende editoriali, a patto che adottino modelli di diffusione innovativi, in modo da lenire le conseguenze del duro processo di ristrutturazione che caratterizza l’editoria italiana di questi anni. Chiediamo conseguentemente che si stanzino risorse specifiche con modalità simili a quanto già realizzato nel passato.
Crediamo che dal sostegno non possano più essere escluse le testate on line che siano costituite in cooperativa ed abbiano i requisiti organizzativi professionalizzati previsti dalla 416, anche se con percentuali di contribuzioni più basse per la natura dei mezzi impiegati. Per l’immediato occorre garantire l’uniformità dell’IVA a quella imposta sui prodotti cartacei.
Per l’emittenza crediamo che il primo requisito sia di assicurare alle emittenti locali le risorse per qualificare l’offerta informativa che debbano essere gestite dalla Presidenza del Consiglio con lo stesso criterio della qualità e della professionalità precedentemente richiamata.
Mediacoop ritiene che i criteri di assegnazione delle risorse alle emittenti televisive debbano essere rivisti per evitare che aumenti la distanza tra le prime emittenti e tutte le altre, che -in altri termini- debba essere rivisto il privilegio per le prime cinque emittenti per area e che nella costruzione delle graduatorie il fatturato sia sostituito dall’autoproduzione di contenuti.
Occorrerà che nello stanziare le risorse si tenga conto della situazione di difficoltà del settore della radiofonia mettendola in condizione di sopravvivere e resistere ai processi di concentrazione dei network nazionali. E soprattutto sia messa in condizione di passare rapidamente al digitale che è condizione di qualificazione dell’offerta.
Per il settore librario Mediacoop, al di là della sottoscrizione di norme che limitino la scontistica, chiede che si intervenga sulle aliquote IVA dell’editoria multimediale: gli e-book sono pubblicazioni come quelle cartacee e quindi appare incongrua una discriminazione che conservl l’Iva al 20% rispetto al 4% dei libri a stampa.
Riaprire il confronto sul Regolamento. Per quanto detto e meglio dettagliato nel Documento Congressuale, Mediacoop chiede di aprire il confronto sul Regolamento appena approvato, non solo per riverificare l’utilità di tutti i suggerimenti non accolti che sono in grado di qualificare concretamente la platea e razionalizzare le risorse, ma soprattutto per modificare la serie in interventi introdotti dopo la chiusura del confronto con gli operatori, che appaiono penalizzanti, come al solito, per i più deboli. Occorre inoltre sopprimere quegli ulteriori irrigidimenti, come se non bastassero quelli già previsti dalla legge.
Emerge a questo punto con tutta l’urgenza necessaria il problema del Contratto collettivo dei giornalisti. Mediacoop ritiene che sia insostenibile l’obbligo previsto dalla legge 142 ad assumere un contratto collettivo e l’impossibilità di modificare quello sottoscritto dal sindacato unico FNSI con FIEG. Le condizioni di questo contratto, al quale non siamo stati in alcun modo coinvolti, non vanno bene per le cooperative, sia per la loro natura sia per il loro modo di organizzarsi. In tutti questi anni c’è stato un rapporto solido con FNSI che è stato il fulcro di tutte le politiche di Mediacoop. Tuttavia se politicamente il rapporto è saldo questa saldezza non può tradursi nell’imposizione di vincoli contrattuali da definiti altri. Torniamo a chiedere l’apertura del tavolo con FNSI. Se questo non fosse possibile non ci resta che chiedere al Parlamento di rivederla legge, proclamando, nel contempo, lo Stato di crisi generalizzato e permanente in tutte le cooperative.
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Le cooperative sono su un crinale pericolosissimo in cui occorre, per le più fortunate, rivedere i posizionamenti, ridefinire le politiche di breve e medio periodo; per quelle più esposte cercare di capire come scampare dalla chiusura. Appaiono evidenti problemi legati al dimensionamento e alla necessità di mettere a fattor comune servizi e opportunità. Si pongono problemi di apertura di rapporti di sistema con altri attori che perseguono le nostre stesse finalità .
Nei prossimi anni, a partire da questo Congresso le cooperative e Mediacoop dovranno attivarsi per costruire le condizioni per garantire una migliore capitalizzazione, per costruire gli strumenti necessari per favorire joint anche con i privati nei casi in cui occorra rafforzare il dimensionamento o operare sui fattori critici..
Così come occorrerà, probabilmente, promuovere diverse articolazioni territoriali, come nel caso delle radio locali, in modo da rendere più efficace il rapporto con gli enti locali, intervenire sui fattori economici di competenza delle regioni (come la pubblicità istituzionale, per fare un esempio) o degli altri enti intermedi. Articolazioni che potrebbero vedere insieme cooperative e imprese non cooperative, ma con gli stessi obiettivi di interpretazione del ruolo dell’emittenza in modo da divenire un’offerta non marginalizzabile.
All’epoca del dei social network e dell'open source, la cooperazione e le reti cooperative appaiono come la forma imprenditoriale che meglio si addice ai nuovi modelli di comunicazione, basta saperli interpretare, ritrovando lo spirito "aggregativo" o di “coinvolgimento” tra tutte le componenti del mondo cooperativo. In questo senso, il disegno di un’ “Area Cultura & Media” di Legacoop può essere il terreno anche per costruire una rete nazionale di produttori e distributori di contenuti, per la gestione in comune di quote minime di palinsesti TV di emittenti aderenti e di quelle non profit, di coinvolgimento di grandi protagonisti produttivi ed economici del mondo cooperativo.
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Non vorrei che si avesse l’idea, da questa relazione, e in qualche misura dal documento congressuale, che non percepiamo la ricchezza e il fascino di una situazione così piena di opportunità e di incognite quale è quella che il mondo della comunicazione di oggi offre alla nostra riflessione. Non vorrei che si rilevasse una qualche sordità a fenomeni informativi che dal basso innervano rivoluzioni, promuovono protagonismi di persone e bisogni che il “sistema”, come direbbe Bauman, rottama tra i rifiuti perché non economicamente significativi. Non vorrei che si credesse che non c’è in noi meraviglia e curiosità, voglia di essere coinvolti e coinvolgere.
Così come abbiamo chiaro che le frontiere della tecnologia non sono semplicemente un adeguamento produttivo: è una trasformazione di linguaggi e di contenuti e, perfino, di valori che condizionano i contenuti, la loro verità/veridicità, che mettono in crisi istituzioni e funzioni, e che varrebbe la pena di discutere come questi strumenti, che hanno la vocazione a qualificare e moltiplicare le soggettività, possano trovare nella forma cooperativa un momento di stabilizzazione e di valorizzazione.
È qui il disappunto: questo congresso non può che denunciare l’impossibilità, con questo Esecutivo, di pensare al futuro, perfino di programmare dignitosamente la propria attività imprenditoriale. È costretto a concentrarsi su un minimo di condizioni di sopravvivenza e di difesa del principio del pluralismo e della pluralità delle rappresentazione.
L’assurdo è che la battaglia per la sopravvivenza abbia monopolizzato tutto il nostro tempo e impegno e speriamo che le forze politiche accettino la nostra richiesta di intervento urgente. Forse può sembrare un atteggiamento difensivo, ma è certo un modo concreto di discutere di democrazia.