di Barbara Meo Evoli*
A cento anni dall’istituzione dell’otto marzo, oltre mille donne di più di trentacinque paesi del mondo si sono ritrovate a Caracas per rivendicare i propri diritti. La Conferenza mondiale delle donne di base è stato il primo incontro internazionale non istituzionale ed autofinanziato con l’obiettivo sia di ricordare le conquiste sociali e politiche e di far sì che si estendano al maggior numero di paesi del mondo che di progettare nuovi strumenti contro le discriminazioni ancora oggi esistenti.
Molteplici sono stati i temi su cui si è dibattuto nei workshop nell’incontro: dalla sessualità alla violenza, dalla femminilizzazione della miseria alla discriminazione sul lavoro, dalla tratta alla partecipazione politica. Nella sede dell’Università bolivariana contemporaneamente ai workshop, si è svolta l’assemblea delle delegate in cui ogni paese era rappresentato da cinque donne.
Fra i punti fondamentali della risoluzione finale si chiede la depenalizzazione dell’aborto, la promozione dell’educazione sessuale fin dall’infanzia, la distribuzione di contraccettivi gratuiti, l’umanizzazione del parto, la proibizione della pubblicità sessista, l’implementazione delle leggi contro la violenza di genere e la fine delle discriminazioni sul lavoro.
Il documento finale è stato approvato con il consenso di tutte le delegazioni, tranne quella del Kurdistan. Le tredici donne curde si sono ritirate dalla Conferenza denunciando la repressione delle idee discordanti da quelle del comitato preparatorio dell’evento composto da Ecuador, Venezuela, Argentina e Germania. Sicuramente è vero che le opinioni di questi quattro paesi avevano peso nelle discussioni dell’Assemblea, ma bisogna tenere in considerazione che alla Conferenza hanno partecipato membri di collettivi, organizzazioni sociali, sindacali e movimenti femministi molto diversi fra loro, che molto difficilmente avrebbero trovato un accordo senza l’orientamento proposto dal comitato preparatorio.
Anche se sicuramente la Conferenza ha unito le partecipanti nella battaglia per l’uguaglianza di genere e ha permesso uno scambio fecondo di esperienze diverse, non si può dire che rappresenti l’universo dei movimenti che lottano per i diritti delle donne. Mancavano infatti all’appello molte nazioni: per esempio del Medio oriente erano presenti solo quattro paesi. Inoltre a molte attiviste provenienti da continenti diversi, tra cui quattrocento colombiane, non è stato concesso il visto per l’ingresso in Venezuela.
Oltre ai quattro paesi promotori dell’incontro, che hanno cominciato a riunirsi nel 2007, sono stati presenti Messico, Colombia, Romania, Olanda, Francia, Repubblica dominicana, Svizzera, Bangladesh, India, Mali, Indonesia, Egitto, Marocco, Serbia, Sudafrica, Kurdistan, Irak, Austria, Afghanistan, Brasile, Iran, Portogallo, Bolivia, Belgio, Turchia, Cile, Perù, Eritrea, Filippine, Usa e Italia.
Le partecipanti hanno posto in evidenza come le donne, anche se provenienti da paesi molto distanti e diversi tra di loro, soffrono le stesse discriminazioni e affrontano problemi molto simili. Tra tutti i flagelli mondiali la violenza contro le donne per esempio è la più equamente ripartita: la si trova in tutti i paesi, in tutti i continenti e presso tutti i gruppi sociali, economici, religiosi e culturali.
Tra le lotte principali portate avanti dalle donne della delegazione argentina vi è infatti quella diretta all’applicazione della legge per eliminare la violenza di genere. “Solo nel 2010 vi sono stati 260 femminicidi denunciati sui giornali – afferma Clelia Iscaro, 83 anni e tutta una vita nei movimenti femministi – ma molti altri non sono stati indagati”. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, la prima causa di morte delle donne di età compresa fra i 16 e i 44 anni è la violenza. Un’altra delle grandi battaglie delle delegate dell’Argentina è quella per la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza: “Ogni giorno e mezzo muore una donna a causa della pratica dell’aborto clandestino – denuncia Iscaro -. L’illegalità obbliga le donne delle classi umili ad abortire in pessime condizioni igienico-sanitarie, mentre coloro che hanno le possibilità economiche pagano una clinica privata”.
Anche la delegata della Turchia del Movimento democratico delle donne, Eylen Yildiz, pone l’accento sulla tragedia dei femminicidi che, in particolare nel suo paese, colpisce le donne che si ribellano alle decisioni prese dalla propria famiglia per lei. “Le donne devono chiedere l’autorizzazione al padre e ai fratelli per sposarsi – spiega con tono duro – e spesso non denunciano neanche le violenze che subisono”. Poi non nasconde l’arretratezza del proprio paese relativamente all’uguaglianza di diritti fra generi: “le donne sono ancora viste come un oggetto e non come un individuo, ma fortunatamente la mentalità sta cambiando. La rivoluzione dell’Islam, che ha già avviato un cambiamento nell’approccio alla relazione uomo-donna, deve essere promossa dal suo interno”.
Gloria Sibongile Mtshinise del ‘Abanqobi Women Together’ del Sudafrica rileva come la prima lotta delle donne sia quella contro la femminizzazione della povertà. “Siamo oppresse doppiamente - afferma senza segni di rassegnazione - sia da un sistema di produzione ingiusto sia come donne. La prima battaglia intrapresa dalla maggior parte delle sudafricane – conclude – è quella per procurarsi un pezzo di pane per sé e per la sua famiglia. Solo dopo aver provveduto alle necessità primarie la donna può pensare a lottare per i suoi diritti”.
Anche l’Italia è stata presente con 14 persone provenienti da varie città. La delegata Angela D’Alessandro della casa d’accoglienza Lucha y Siesta di Roma rivela come nel nostro paese da tempo i movimenti femministi popolari siano morti e la rivendicazione dei diritti delle donne sia diventata un hobby delle ‘radical chic’. “A seguito dello scandalo Ruby, stiamo assistendo a una spettacolarizzazione della mercificazione del corpo femminile – afferma con tono deciso –. È importante oggi risvegliare i movimenti provenienti dal basso per ricominciare la lotta per le pari opportunità che si è fermata dopo le grandi conquiste degli anni ’70 del divorzio e dell’aborto gratuito”.
Secondo l’altra delegata italiana alla Conferenza, l’ex brigatista Geraldina Colotti, i movimenti femministi italiani si sono spenti negli anni ’80 anche per il venir meno dei movimenti radicali di sinistra. Poi sottolinea intravedendo un barlume di speranza: “la manifestazione del 13 febbraio a Roma contro la rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale a cui hanno partecipato un milione di persone è stato un buon inizio”.
Secondo l’attivista dei diritti umani e curatrice di un blog sull’America latina, Annalisa Melandri, è stato importante arrivare a un consenso fra tutte le delegate per denunciare le migliaia di morti per aborto clandestino, la violenza che colpisce tre donne su cinque sulla terra e la disparità di trattamento salariale per cui le donne percepiscono il 25 per cento in meno dello stipendio degli uomini. “Sono tre piaghe – afferma – per le quali continueremo a batterci. Per questo motivo si è deciso che la Conferenza mondiale si rifarà fra cinque anni”.
Karola Kucken dell’Organizzazione delle donne tedesche evidenzia l’importanza dello scambio di idee che ha prodotto la Conferenza e ricorda come oggi la donna sia un motore importante dei movimenti che lottano contro le ingiustizie nel mondo, anche in medio Oriente.
Anche in Italia vi è ancora molta strada da fare per raggiungere la parità di genere. A 100 anni dall’inizio della lotta per l’emancipazione avviata da Clara Zetkin, è fondamentale costruire un movimento internazionale di donne che porti avanti la lotta per la liberazione femminile.
*giornalista professionista e fotografa
foto di Barbara Meo Evoli
www.meoevoli.eu