Articolo 21 - INTERNI
Per le strade di Roma i sorrisi di chi ha voglia e forza di cambiare questo paese
di Marco Furfaro
Statistiche, buone per un telegiornale o per qualche vecchio opinionista della domenica. Numeri senza volto. Di disoccupati, di precari, di atipici, di accasati da mamma e papà, di stagisti, di single, di affittuari, di gente in doppia. Categorie e numeri così sproporzionati rispetto al resto d'Europa da essere ogni tanto degnati di nota dall'Istat o da qualche agenzia di stampa, magari quando c'è bisogno di riempire i talk show o i tg, tra una telefonata e l'altra di Berlusconi a quei meeting insopportabili di sepolcri imbiancati del sabato pomeriggio. Mai al centro dell'agenda politica, mai che fossero loro a raccontarsi.
Fino a al 9 aprile, quando una moltitudine di ragazze e ragazzi ha invaso le strade d'Italia al grido de “Il nostro tempo è adesso. La vita non aspetta”.
La vita. Per questo sono scesi in piazza, non “solo” per il contratto di lavoro, per l'estensione dei diritti, per un reddito che non c'è o il diritto di ricevere una pensione decente in tarda età. Erano in piazza per riprendersi la vita, per sentirsi nuovamente parte di un Paese che sembrava averli espulsi dalla scena e rinchiusi nelle loro solitudini.
I volti dei ragazzi per le strade di Roma erano i sorrisi di chi ha voglia e forza di cambiare questo paese, anche a costo di deragliare il treno su cui sono seduti. Perché quando sei su un binario morto, allora meglio prendersi la responsabilità del rischio di finire fuori strada. Tanto da rischiare c'è sempre meno, considerando il continuo attacco a chi i diritti li aveva acquisiti dopo anni di lotte e la negazione a coloro che non ne hanno mai avuti.
La manifestazione di Roma è stata bellissima. Erano un fiume in piena quelle due generazioni, arricchite dalla presenza di tante e tanti meno giovani, che sfilavano nelle strade di Roma. Una manifestazione nuova, accessibile, colorata, popolare. Fuori da pratiche stanche e già viste, dentro contenuti e proposte nuove, lontane dal grigio del teatrino della politica e rappresentate da belle performance realizzate durante il percorso (come le tende da campeggio allestite in piazza dell'Esquilino per protestare contro l'assenza di politiche di sostegno e welfare nei confronti dei giovani). Sapevano quanto sarebbe stato difficile non essere etichettati, non cadere nella mera manifestazione di protesta (per poi sentirsi dire “e la proposta?”). Ed eccoli lì, perfettamente a loro agio al centro della scena, a gridare le loro idee e le loro proposte maledettamente di buon senso.
Lavoratori della conoscenza, dello spettacolo, studenti, giornalisti, ma anche operai, portuali, commesse, operatori dei call center. Tutti per rivendicare il diritto a non essere continuamente ricattati e ricattabili, tutti per chiedere un nuovo modello di sviluppo in un Paese avvitato su se stesso e sulle necessità di un uomo solo e disperato.
Ragazzi precari, ma solo alcuni spaventati dalla flessibilità. Perché una parte, in particolare quella che fa lavori cognitivi, la precarietà quasi la rivendica. Nel senso che non le spaventa formarsi, cambiare lavoro, prendere strade diverse nel corso della vita. Ma è tremendamente spaventata dalla discontinuità del reddito, dai processi di esclusione sociale che porta perdere un lavoro. Perché, per fare un esempio, non puoi accedere ad un mutuo o ancora più semplicemente prendere in affitto un appartamento senza un contratto decente.
Anche per questo chiedono un nuovo modello di welfare, universalistico, che garantisca tutti e che sia finanziato dalla fiscalità generale. Un modello segnato dalla “continuità del reddito”, magari attraverso l'istituzione di un reddito minimo garantito, misura prevista in tutta Europa, eccezion fatta per Italia e Grecia (una risoluzione del Parlamento europeo sostiene che debba essere pari al 60% del salario mediano).
Un nuovo modello di welfare, dunque, ed estensione dei diritti e delle tutele che vengono negate a precari, atipici, disoccupati, partite iva senza mettere in discussione i diritti acquisiti in anni di lotte e conquiste sociali dei lavoratori a tempo indeterminato.
“Per riprendersi la vita”, dicono. Quella tolta a Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi, ragazzi come tanti altri e morti ammazzati senza ragione. Quelle piazze parlavano anche di loro e per loro, perché erano ragazzi come tanti altri, condannati dalla giostra della vita a un copione scritto irresponsabilmente da qualcun altro. Persino nei luoghi d'eccellenza abbiamo lasciato terminare il respiro giovane dei nostri talenti. Come Norman. Laureato a pieni voti e in conclusione di un dottorando in filosofia del linguaggio. Ma l'Italia è un paese strano, spende soldi per l'istruzione pubblica, forma i propri giovani, li rende dei talenti, pur nelle mille difficoltà, e quando c'è da passare alla cassa per riscuotere l'investimento fatto li lascia andare all'estero. Anzi, li costringe ad andare all'estero. Questo sarebbe stato il destino di Norman, così gli era stato detto. Perché non c'era futuro per lui in questo strano paese per anime morte. E allora ha deciso di andarsene, lasciando sul ciglio di una finestra del settimo piano dell'edificio di Lettere dell'università di Palermo un biglietto per il padre e tanti rimpianti.
Da oggi, quei ragazzi non permetteranno più che accada. Perché in piazza, quelle maglie gialle e quei punti esclamativi, erano anche per loro.
Fino a al 9 aprile, quando una moltitudine di ragazze e ragazzi ha invaso le strade d'Italia al grido de “Il nostro tempo è adesso. La vita non aspetta”.
La vita. Per questo sono scesi in piazza, non “solo” per il contratto di lavoro, per l'estensione dei diritti, per un reddito che non c'è o il diritto di ricevere una pensione decente in tarda età. Erano in piazza per riprendersi la vita, per sentirsi nuovamente parte di un Paese che sembrava averli espulsi dalla scena e rinchiusi nelle loro solitudini.
I volti dei ragazzi per le strade di Roma erano i sorrisi di chi ha voglia e forza di cambiare questo paese, anche a costo di deragliare il treno su cui sono seduti. Perché quando sei su un binario morto, allora meglio prendersi la responsabilità del rischio di finire fuori strada. Tanto da rischiare c'è sempre meno, considerando il continuo attacco a chi i diritti li aveva acquisiti dopo anni di lotte e la negazione a coloro che non ne hanno mai avuti.
La manifestazione di Roma è stata bellissima. Erano un fiume in piena quelle due generazioni, arricchite dalla presenza di tante e tanti meno giovani, che sfilavano nelle strade di Roma. Una manifestazione nuova, accessibile, colorata, popolare. Fuori da pratiche stanche e già viste, dentro contenuti e proposte nuove, lontane dal grigio del teatrino della politica e rappresentate da belle performance realizzate durante il percorso (come le tende da campeggio allestite in piazza dell'Esquilino per protestare contro l'assenza di politiche di sostegno e welfare nei confronti dei giovani). Sapevano quanto sarebbe stato difficile non essere etichettati, non cadere nella mera manifestazione di protesta (per poi sentirsi dire “e la proposta?”). Ed eccoli lì, perfettamente a loro agio al centro della scena, a gridare le loro idee e le loro proposte maledettamente di buon senso.
Lavoratori della conoscenza, dello spettacolo, studenti, giornalisti, ma anche operai, portuali, commesse, operatori dei call center. Tutti per rivendicare il diritto a non essere continuamente ricattati e ricattabili, tutti per chiedere un nuovo modello di sviluppo in un Paese avvitato su se stesso e sulle necessità di un uomo solo e disperato.
Ragazzi precari, ma solo alcuni spaventati dalla flessibilità. Perché una parte, in particolare quella che fa lavori cognitivi, la precarietà quasi la rivendica. Nel senso che non le spaventa formarsi, cambiare lavoro, prendere strade diverse nel corso della vita. Ma è tremendamente spaventata dalla discontinuità del reddito, dai processi di esclusione sociale che porta perdere un lavoro. Perché, per fare un esempio, non puoi accedere ad un mutuo o ancora più semplicemente prendere in affitto un appartamento senza un contratto decente.
Anche per questo chiedono un nuovo modello di welfare, universalistico, che garantisca tutti e che sia finanziato dalla fiscalità generale. Un modello segnato dalla “continuità del reddito”, magari attraverso l'istituzione di un reddito minimo garantito, misura prevista in tutta Europa, eccezion fatta per Italia e Grecia (una risoluzione del Parlamento europeo sostiene che debba essere pari al 60% del salario mediano).
Un nuovo modello di welfare, dunque, ed estensione dei diritti e delle tutele che vengono negate a precari, atipici, disoccupati, partite iva senza mettere in discussione i diritti acquisiti in anni di lotte e conquiste sociali dei lavoratori a tempo indeterminato.
“Per riprendersi la vita”, dicono. Quella tolta a Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi, ragazzi come tanti altri e morti ammazzati senza ragione. Quelle piazze parlavano anche di loro e per loro, perché erano ragazzi come tanti altri, condannati dalla giostra della vita a un copione scritto irresponsabilmente da qualcun altro. Persino nei luoghi d'eccellenza abbiamo lasciato terminare il respiro giovane dei nostri talenti. Come Norman. Laureato a pieni voti e in conclusione di un dottorando in filosofia del linguaggio. Ma l'Italia è un paese strano, spende soldi per l'istruzione pubblica, forma i propri giovani, li rende dei talenti, pur nelle mille difficoltà, e quando c'è da passare alla cassa per riscuotere l'investimento fatto li lascia andare all'estero. Anzi, li costringe ad andare all'estero. Questo sarebbe stato il destino di Norman, così gli era stato detto. Perché non c'era futuro per lui in questo strano paese per anime morte. E allora ha deciso di andarsene, lasciando sul ciglio di una finestra del settimo piano dell'edificio di Lettere dell'università di Palermo un biglietto per il padre e tanti rimpianti.
Da oggi, quei ragazzi non permetteranno più che accada. Perché in piazza, quelle maglie gialle e quei punti esclamativi, erano anche per loro.
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