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Articolo 21 - IDEE IN MOVIMENTO
La comunicazione è la politica, la politica è la comunicazione
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di Vincenzo Vita*

La comunicazione è la politica, la politica è la comunicazione

La comunicazione è la politica, la politica è la comunicazione. Così è sembrato trasformarsi il quadro delle relazioni più classiche tra poteri rimasti a lungo distinti, nell’era segnata dal berlusconismo. Quest’ultimo non è stato un fenomeno improvviso, bensì un lungo lento costante accumulo di sintomi. Che cominciano alla fine del secolo scorso, seconda metà degli anni settanta. Quando la non compresa iniziativa privata nel campo dell’emittenza radiotelevisiva prese piede, la politica italiana e segnatamente la sinistra di tradizione comunista oscillarono a lungo senza prendere una decisione chiara. Anzi. Ci si attardò nella difesa militante della Rai, non comprendendo che l’entrata dei privati dava voce (distorcendola) a una insopprimibile voglia di cambiare la dieta mediatica: troppo chiusa, esageratamente ripetitiva e moralista. Radio e televisioni locali, con l’avamposto delle stazioni straniere, introducevano novità di stili, ritmi, linguaggi. Non si volle cogliere il filo ‘eversivo’ sotteso al rimbombo delle antenne private. Non si scelse di stilare un compromesso, come fece la Bbc in Gran Bretagna con il consorzio ‘pubblico’ delle televisioni non pubbliche, né di regolamentare i media in maniera rigorosa come in Francia e in Germania, e  neppure di privatizzare davvero: modello USA. E’ in una simile ‘terra di nessuno’, piena di enfasi per le radio-tv libere (giusto, ma infantile), che prende piede il movimento berlusconiano. Sì, chiamiamolo così, non per personalizzarne troppo i caratteri, bensì per storicizzare il tema. Non è stato solo un accidente, certo aiutato in modo clamoroso da Craxi con i decreti ad personam e da tanta parte della vecchia Democrazia cristiana, nonché da diversi silenzi e omissioni complici della sinistra. Si è trattato di un vero e proprio mutamento di paradigma, spostando i media generalisti analogici dalla loro acquisita funzione succedanea ad una centralità sempre più assoluta. La comunicazione ha preso le sembianze di un vero pervasivo soggetto politico, mutando i tratti stessi della politica. Quest’ultima comincia via via a dissolversi nel suo essere connessa alla vicenda – per altri versi ugualmente in crisi- dello Stato-nazione. La privatizzazione dell’etere non era tanto e solo un fenomeno giuridico, quanto una sequenza terribile del terribile processo della globalizzazione. Il passaggio dall’analogico al digitale, vale a dire l’intreccio inesorabile con la rete e internet, ha fatto il resto. Senza normazione sul conflitto di interessi e una decente architettura antitrust, senza spirito pubblico nell’Italia post-ideologica, la conquista delle frequenze è coincisa con l’assalto all’immaginario collettivo. Mammì, Gasparri, Romani, e così via, simulacri reazionari di un ordine imposto da convenienze ultronee.
L’incoscienza della sinistra non risiede nella letteratura di alterna utilità sull’’inciucio’, quanto nello spaesamento, nella colpevolissima incomprensione di ciò che accadeva, accade, accadrà (?). Mettiamola così: persa la guerra dell’analogico, vogliamo perdere pure quella del digitale? Ci stiamo rendendo conto che non siamo in presenza di una tecnica sofisticata –oggi numerica, domani quantica- bensì di una nuova soglia di relazioni di cui i social network sono l’espressione? Non solo. E’ in atto proprio l’altro previsto rovesciamento dell’ordine degli addendi di un lungo periodo di logica giuridica: la privatizzazione del pubblico, la pubblicizzazione del privato. Microsoft, Amazon, Google, Facebook, Twitter sono l’essenza del capitalismo dell’era informazionale prevista da Manuel Castells, dopo il Novecento del fordismo e del taylorismo. E la vita privata quotidiana entra con naturalezza nel ‘palinsesto’ digitale. Già è avvenuto lo switch-off tra consumo di televisione e navigazione nella rete, già sono cresciuti i ‘nativi digitali’, già la politica è ‘contaminata’ dal Web 2.0. Non c’è tempo, scriveva il famoso matematico Evaristo Galois. Non c’è tempo.
Nel centenario della nascita di McLuhan non serve la celebrazione, bensì la comprensione di una dei suoi brillanti aforismi: ‘The future of the future is the present’. Nella cultura dell’immanenza, ci ricorda Marc Augé, c’è tutto. Se ne è accorto uno dei ‘principi’ del villaggio globale, il Sarkozy animatore dell’eG8 a Parigi su internet, dove sembrava profilarsi-nell’assenza dei protagonisti della cittadinanza attiva digitale- un compromesso tra gruppi privati egemoni e governi ( un asso franco-statunitense?), fondato sulla ‘civilizzazione’ della rete. Tradotto: durezza sul copyright, debolezza sul principio sacrosanto della net neutralità, software non libero.
Ecco perché è doveroso immergersi nel vero conflitto dell’ipermodernità, da cogliere nelle sembianze spesso manipolate in cui si esprime, e nel quale può e deve nascere quello che Formenti ha chiamato il ‘Quinto stato’. Vale a dire l’alleanza tra le espressioni contemporanee dei lavori manuali e intellettuali. L’intelligenza collettiva e connettiva, come ci hanno ammonito Lévy e De Kerckhove. Di qui passa anche la resurrezione della politica nella sua dimensione persino etimologica. E così sia.     

*tratto da L'Unità   
 


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