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Sentenza Aldrovandi: "Un segnale inequivocabile per tutti gli altri casi simili, e ci dice che un problema esiste"
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di Filippo Vendemmiati

Sentenza Aldrovandi: "Un segnale inequivocabile per tutti gli altri casi simili, e ci dice che un problema esiste"

I fatti ora sono noti, accertati e definitivi, anche per la giustizia e non solo nelle ricostruzioni “docu-giornalistiche”. Il 25 settembre 2005 in via Ippodromo a Ferrara un ragazzo di 18 anni, che si chiamava Federico Aldrovandi, è stato ucciso da 4 agenti di polizia che hanno usato contro di lui la forza in modo eccessivo e ingiustificato. Questo dice la sentenza d’appello che ha riconfermato per intero la condanna a 3 anni e 6 mesi inflitta in primo grado a Ferrara il 6 luglio 2009. Dice bene Lino Aldrovandi, padre di Federico, nel blog della famiglia, che dall’inizio di questa brutta storia ha condotto una strenua battaglia per la dignità e la giustizia: “Siamo a 2/3 del guado, se gli avvocati dei 4 individui, che uccisero Federico senza alcuna ragione, ricorreranno in Cassazione, ma i fatti processuali sono questi e nessuno li potrà più nascondere e penso che il licenziamento di queste persone sia quasi un atto dovuto, a prescindere da “certe regole”. L’impunità, se esiste, deve essere sconfitta”. Se la sentenza allora non è definitiva e la pena deve ancora attendere, definitivi sono le circostanze  e le responsabilità morali dei quattro responsabili della morte di Federico, che già da oggi vorremmo fossero chiamati ex poliziotti. Ha commentato Patrizia, la mamma di Federico, subito dopo la sentenza: “E’ una conferma di condanna importante e non solo per mio figlio, ma per tutte quelle inchieste e quei processi ancora aperti che vedono, come accusati, rappresentati dello stato e, come  vittime, incolpevoli cittadini. Voglio dirlo forte, apertamente, al Presidente della Repubblica e al Capo della polizia: noi familiari siamo stanchi di subire il linciaggio di uno Stato quando offende la dignità dei nostri cari, marchiati, a seconda dei casi come drogati, violenti, ubriachi e quando protegge e copre i comportamenti delittuosi dei suoi “rappresentanti che sbagliano”. Dove i genitori di Federico, papà e mamma senza differenza alcuna, trovino la forza di condurre da anni una battaglia per la democrazia, per la quale per primo lo stesso Stato dovrebbe essere loro grato, io, che li frequento assiduamente ormai da alcuni anni, ancora non l’ho capito fino in fondo, in questa Italia dominata dagli interessi delle botteghe grandi e piccole. I genitori di Federico ci trasmettono la speranza e l’illusione che questa nostra democrazia sia meno malata di quanto il nostro scetticismo, per altro giustificato, e la nostra pigrizia nel cogliere i cambiamenti ci facciano ritenere. Ha ragione l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Aldrovandi, ma anche delle famiglie Cucchi, Uva e Bianzino: “Questa sentenza è un segnale inequivocabile per tutti gli altri casi simili a questo, ci dice che evidentemente un problema esiste”. Nei numerosi commenti, che appaiono sulla rete dopo la seconda condanna, i più frequenti pongono l’attenzione sull’entità della condanna, giudicata unanimemente troppo mite. A scanso di equivoci, premetto subito che, considerata la gravità dei fatti accertati, la violenza usata dai quattro responsabili, aggravata dal ruolo che occupavano, è fuor di dubbio che  tre anni e sei  mesi, di cui tre anni già condonati dall’indulto, sono una pena davvero lieve. Va aggiunto però  che la giustizia deve essere anche cinica, oltre che giusta, e che il reato di cui sono stati accusati gli agenti non è l’omicidio volontario è nemmeno preterintenzionale, bensì colposo. Nella fattispecie eccesso colposo in omicidio colposo. In altre parole Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani, Monica Segatto sono stati condannati per aver ecceduto nell’uso della forza, pena massima cinque anni. Si aggiunga il fatto che in primo grado il sostituto Nicola Proto, che ha condotto l’accusa, non ha fatto appello, perché soddisfatto della condanna ottenuta, del resto aveva chiesto appena due mesi di più, tre anni e otto mesi. Per questo il procuratore generale nel processo d’appello si è trovato nell’impossibilità giuridica di proporre una condanna maggiore, ma provocatoriamente si è chiesto nella sua arringa : “Se non si dà la pena massima di cinque anni in questi casi, quando allora si deve ricorrere ad essa?” In verità il procuratore d’appello si è spinto anche un po’ più in là, ripercorrendo la stessa strada del giudice Francesco Maria Caruso nelle motivazioni della sentenza di primo grado, arrivando prospettare un’ipotesi dolosa e non più colposa per i quattro agenti. Dove avrebbe portato questa strada? A riformulare, aggravandola, l’imputazione, a restituire gli atti alla Procura di Ferrara e a ricominciare quasi da zero l’iter processuale. La giudico una strada senza uscita, pericolosa e controproducente. Per ora è finita e ognuno resta con le proprie convinzioni e suggestioni, con le voci raccolte e non confermate,  con le testimonianze ritrattate che inducono a ritenere che ci siano misteri strani e ancora più gravi. Se un giorno qualcuno parlerà, la sua testimonianza potrà anche essere considerata dalla giustizia, che però non può attendere o rimandare il suo corso. Nel frattempo, quel che poteva fare lo ha deciso. Resta un altro capitolo aperto, di cui finora si è parlato troppo poco, in parte giustamente oscurato anche dal principale e più importante capitolo giudiziario riguardante la morte di Federico. In questi anni numerosi cittadini (chi ha scritto le proprie opinioni su Internet, gli amici di Federico e i suoi parenti, la mamma stessa di Federico, giornalisti) sono stati querelati per diffamazione da rappresentanti dello stato. In alcuni casi il motivo della querela è quasi surreale, il più clamoroso è quello di Patrizia Moretti, denunciata da tre dei quattro agenti per averli definiti “delinquenti”, causa archiviata. Patrizia è stata invece rinviata a giudizio e sarà processata il primo marzo 2012 dal tribunale di Mantova, costretta nel ruolo di imputata dal primo magistrato titolare dell’inchiesta sulla morte del figlio. Il sostituto Maria Emanuela Guerra chiede un risarcimento di un milione e mezzo di euro a seguito di alcune interviste nelle quali la mamma di Federico sosteneva che nei primi mesi dell’inchiesta  non erano state fatte indagini. Identica constatazione è agli atti del processo di primo grado e nelle motivazioni della sentenza. Per aver raccolto quelle interviste sono stati rinviati a giudizio anche due giornalisti della Nuova Ferrara e uno del sito internet estense.com. Altri esempi: un  impiegato, membro della comunità di Sant’Egidio, è stato querelato dall’allora questore Elio Graziano, oggi in pensione, per aver scritto una mail di protesta al Comune di Modena che aveva invitato Graziano ad una manifestazione sportiva. Altra querela da un sindacalista di polizia. La frase incriminata è questa: “Lei sa essere cattivo come solo i suoi colleghi che testimoniano il falso sanno fare”. Lo stesso sindacalista ha querelato anche chi nel blog ha scritto tra l’altro: “Di quale processo parla il sindacalista ? Forse quello di Biscardi?”  L’estate scorsa il ministero dell’interno ha concesso ai famigliari di Federico Aldrovandi un risarcimento di due milioni di euro e in cambio lo stato ha chiesto ai familiari di non costituirsi parte civile nel processo di secondo grado, e così è successo. Se voleva essere un modo per chiudere un pagina dolorosa con un’ammissione indiretta di responsabilità, va interpretato come un atto importante, anche perché è la prima volta che si verifica. Ancor di più però dopo la sentenza d’appello “la rinuncia volontaria all’accanimento giudiziario” deve ora valer per tutti e quindi il Ministero dell’interno usi gli strumenti, che ha a disposizione, per indurre alcuni suoi rappresentanti a ritirare una quantità incomprensibile di querele, che nulla aggiungono alla verità, ma anzi sono fonte di dolore, spreco di tempo e denaro per tutti.
Gli amici e i colleghi di articolo 21, che non smetterò mai di ringraziare per aver sostenuto questa battaglia di civiltà, appoggiando incondizionatamente “l’annesso film” che la ricostruisce,  mi concedano infine una postilla finale di carattere personale. Mio figlio si chiama Tomaso, ha undici anni e ancora non ha visto il film. Eppure  del film sa tutto o quasi e  forse è pronto per vederlo, perché la parola che più spesso mi ripete citandolo è dignità. Un giorno di un anno e mezzo fa stava giocando a casa con un suo compagno di scuola, Pietro Luca, e di tanto in tanto i due si affacciavano allo studio, protetto per altro solo da una grande vetrata,  dove io stavo visionando e montando alcune sequenze con gli insostituibili Marino Cancellari e Simone Marchi. Stavamo visionando alcune fotografie di Federico, da piccolo e praticamente loro coetaneo, mentre giocava a calcio con la maglia della Spal. “Cosa  sta facendo il tuo papà”, chiese Pietro Luca a Tomaso. Risposta: “Sta facendo un film su un giocatore della Spal che è stato ucciso dalla polizia”. E’ stato piuttosto semplice spiegargli poi che Federico non era un giocatore della Spal, nonostante questa squadra di quattro lettere rappresenti per me una sorta di malattia tanto inguaribile quanto ingiustificata. Più difficile è stato spiegargli che Federico non è stato ucciso dalla polizia. La domanda, non potevo allora immaginarlo, è risuonata più volte nei mesi successivi. Da chi è stato ucciso Federico Aldrovandi? Mi sono inventato un titolo sgrammaticato per evitare di rispondere al tranello, E’ stato morto un ragazzo. Vediamo se qualcuno ha il coraggio di querelare un errore di grammatica, mi sono detto. E intanto alle prime occasioni sfuggivo al tema, così come facevo da giornalista insieme a tanti altri. E dunque la serie prevedeva: Federico morto durante un controllo di polizia, i quattro che provocarono la morte e via di seguito con  fantasia e ipocrisia. Oggi che la sentenza è quasi definitiva e soprattutto i fatti sono noti e accertati, mi sia consentito dire che Federico è stato ucciso da “quattro fuorilegge” che impropriamente ancora indossano la divisa della polizia. Molti hanno rilevato che uno dei pregi principali di questo film è il suo equilibrio. Bene, oggi posso confessare che dopo essermi immerso totalmente in questa tragedia, dopo averla ripassata centinaia di volte, dopo averne fatta una parte insostituibile di me stesso, e di non aver alcuna intenzione di scrollarmela di dosso, se il film resta equilibrato, “il suo regista” lo è molto meno.

Il buon cinema ed il buon giornalismo possono fare molto per disvelare vigliaccherie, violenze, bugie più o meno di stato - di Beppe Giulietti e Tommaso Fulfaro


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