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In Italia non crescono i gelsomini
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di Jean-Léonard Touadi

In Italia non crescono i gelsomini

Non vi è traccia, nell’aria di questa landa desolata del trapanese, del profumo di Gelsomini. La rivoluzione dei gelsomini è l’espressione con la quale la nostra stampa e l’opinione pubblica hanno imparato a conoscere i gravi fatti che hanno sconvolto la sponda sud del Mediterraneo e la Tunisia in particolare. Non sono sicuro che la protesta di massa che ha messo fine al lungo regno del dittatore Ben Ali sia stata così romantica per i giovani tunisini. E’ un cambiamento avvenuto nel fuoco del martirio del giovane Bouaziz, l’eroe disoccupato che si è immolato dando inizio alla rivolta di massa e al cambiamento. E noi, comodamente seduti sulle nostre poltrone abbiamo applaudito e fatto il tifo per la rivoluzione dei gelsomini. Abbiamo incoraggiato i giovani tunisini a gridare “libertà!”, a chiedere democrazia e trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche, a chieder giustizia sociale. Più che di gelsomini, la rivoluzione nordafricana aveva, ed ha, il sapore e l’aroma incerti di un futuro confiscato da un potere vorace. Un futuro da agganciare a tutti i costi lottando in patria per un cambiamento vero ma anche solcando il mare per sognare di costruirlo dall’altra parte del “mare nostrum”. In fondo migrare per l’essere umano non ha mai significato nient’altro che cercare un altrove, una possibilità di vita, una fuga dalla condizione forzata di morti ambulanti in patria.
Non c’è profumo di gelsomini a Chinisia, dentro questo campo di desolazione improvvisato, allestito sul sito dell’antico aeroporto di Trapani oggi sostituito da una struttura moderna e vuota non lontano dalla pista dismessa. I giovani fuggiti dalla dittatura di Ben Ali che abbiamo applaudito mentre erano a casa loro, a distanza di sicurezza dalle nostre ipocrisie e doppiezze, dalla nostra indifferenza e cinismo, hanno trovato ad accoglierli una recinzione alta 5 metri e poliziotti in tenuta antisommossa che vigilano con i blindati schierati per impedire fughe. La temperatura sfiora i 35 gradi e durante il mese di luglio i 40 gradi saranno l’inferno di questi giovani.
Avevo sentito parlare del Cie di Chinisia e, mentre percorrevo in macchina la strada tra Palermo e Trapani, mi chiedevo se potesse esistere in Italia un posto peggiore di quello che avevamo visitato con la collega Rosa Villecco Calipari solo una settimana prima a Palazzo S. Gervasio in provincia di Potenza. Anche lì, stessa landa desolata, una recinzione d’acciaio, delle tende di plastica sopra l’asfalto torrido e dei giovani tunisini senza il profumo dei gelsomini. “Libertà, libertà, libertà” mi hanno gridato con la stessa forza e determinazione, con la stessa lingua delle grida che abbiamo udito in televisione elevarsi dalle piazze di Tunisi sconvolta. Ma negli occhi di questi giovani reclusi dalla macchina repressiva di un paese democratico la parola libertà aveva il suono sinistro di una desolazione che urla al visitatore la rabbia e l’interrogativo senza risposta di sapere chi ha rubato il loro sogno di libertà. Quei giovani che volevano camminare per inseguire il sogno di libertà erano senza scarpe. Qualcuno aveva deciso, a nome dello Stato, del nostro Stato,  che dovevano restare tutto il tempo solo con i sandali per evitare che potessero fuggire. I funzionari solerti non sapevano, o facevano finta d’ignorare, che chiunque sfida il mare e la morte nel Canale di Sicilia diventa come un “cadavere che non teme la morte” - espressione usata dai giovani africani incontrati a Lampedusa. Il mediatore culturale della Guantanamo di Palazzo S. Gervasio mi spiega che i funzionari, sempre a nome dello stato democratico, hanno deciso, bontà loro, che le scarpe verranno restituite di lì a poco. In questi luoghi senza diritti l’arbitrio regna sovrano e la dignità delle persone si perde insieme all’umanità dei funzionari ormai esecutori, più o meno pentiti, di ordini disumani e amorali.
Usciti da Palazzo S. Gervasio non ci restavano nella mente e nella bocca che due parole degne dell’orrore che avevamo appena visto: chiusura immediata. Qualche settimane dopo abbiamo appreso dal rappresentante del governo -che ci ha informati con voce annoiata e burocratica - che il Cie era stato svuotato e i reclusi rimpatriati verso la Tunisia. Fine del sogno per questi ragazzi ma anche per noi che non possiamo più teorizzare di costituire uno spazio euro-mediterraneo con i frustrati del mare per i quali i nomi Italia ed Europa significheranno d’ora in poi fortezza.
Si chiedono - e ci chiedono - questi giovani dove è l’Italia che avevano visto in televisione, dove si trova quell’eldorado a lungo sognato e diventato un miraggio senza l’ombra di un oasi. Si chiedono - e ci chiedono - dove sono gli italiani gentili e generosi nell’elargire mance. Ora questi giovani sono qui a dire che non è bastata questa carità pelosa del turista distratto.
Quell’autista solerte che ci ha scorazzato per le strade di Hammamet, quel cameriere disponibile del resort di Djerba sono arrivati qui anche loro per dirci che hanno delle aspirazioni alla libertà e al benessere identiche a quelle dei loro coetanei di Milano o di Verona.
Avevo sentito parlare del Cie di Chinisia e nella gerarchia dell’orrore mi ero immaginato, o almeno avevo sperato qualcosa di meno sordido e disumano di Palazzo S. Gervasio. Invece no! La discesa negli inferi della nostra democrazia era ormai in grado, in uno sforzo inerziale di “cattivismo istituzionale”, di concepire dei gironi sempre più infernali in totale illegalità rispetto alle fonti normative rappresentate dalle direttive europee, dalle sentenze della Corte europea di giustizia e dalle pronunce della Consulta. Non solo Palazzo S. Gervasio, ma Mineo, Torino, Bologna, Modena. Porto Empedocle, Lampedusa, Via Corelli a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Ponte Galeria a Roma, tutta la penisola è ormai disseminata di luoghi di autentiche torture per gli stranieri dichiarati delinquenti da una legge iniqua e incivile che criminalizza la povertà. Molte di queste strutture sono così squallide da non reggere la sofferta dignità di alcuni campi profughi visitati in Burundi o nell’Est della Repubblica democratica del Congo.
L’Italia porta d’Europa e culla di civiltà si sta chiudendo in se stessa. Impaurita, invecchiata e paralizzata ha deciso di privarsi della novità dell’innesto. Ma la Sicilia è terra d’accoglienza da secoli, terra d’incontro di persone e culture diverse e le popolazioni dell’isola lo dimostrano quotidianamente accogliendo a Lampedusa e altrove le persone disperate che attraversano il mare. Eppure Trapani, Mineo e altri luoghi diventati Cie non sembrano Sicilia. E’ cosi che per i tunisini la bella luce di Sicilia diventa una lava infuocata che uccide la speranza.
Con questi pensieri nella mente imbocco la strada sterrata che dalla strada provinciale porta al Cie di Chinisia. Il sole picchia forte sull’antico sito dell’aeroporto in località Rilievo dove sorge una delle Guantanamo d’Italia targata Maroni. Allestito in tre giorni, con la logica dell’emergenza, il Cie ospita 48 detenuti. Tra di loro 44 tunisini per la maggior parte richiedenti asilo che non dovevano essere trattenuti in un Cie bensì in un CARA (Centro d’Accoglienza Richiedenti Asilo). Ci sono anche 4 cittadini marocchini transessuali detenuti insieme agli altri senza nessun accorgimento per il loro orientamento sessuale che merita uno spazio ad hoc secondo la legge italiana. Sembra un dettaglio in questo inferno trapanese. Ma il fatto di non distinguere, di non conferire personalità e specificità ai destini individuali rappresenta la cifra di questi luoghi. La persona diventa una categoria “clandestina”, le speranze e i sogni più profondi di ogni essere umano si trasformano in fascicoli burocraticamente trasportati o dimenticati tra questure, procure, prefetture e Cie all’insegna del “cattivismo” imperante e contagioso.  In queste condizioni di estrema disumanità i rischi di abusi non sono da escludere proprio per l’esasperazione cui sono oggetto sia le immigrati vittime che gli operatori. Chi sarà responsabile davanti alla legge di questa trappola d’illegalità, terreno propizio per le fughe in avanti dell’arbitrio e delle soluzioni sbrigative? Proprio all’ingresso del Cie mi viene incontro un funzionario della questura che – rivolgendomi parole di benvenuto – si appresta a dirmi che questa struttura nata provvisoria verrà chiusa per aprirne uno più adatta. Dovevo essere soddisfatto poiché il senso della mia visita qui come altrove era quello di chiedere l’immediata chiusura. Ma mi fermo a riflettere sulle parole “struttura più adatta”. E’ solo una questione di struttura più o meno accogliente oppure è il principio stesso d’incarcerazione delle persone che non hanno commesso nessun crimine che è sbagliato? La povertà non si processa! Eppure è proprio ciò che sta avvenendo nel nostro paese con l’ossessione della sicurezza che somministra soluzioni di ordine pubblico a problemi sociali.
E il cortocircuito democratico e umanitario sta proprio in questa pericolosa confusione tra sicurezza intesa come muscoli dello stato esercitati sui più deboli ed emarginati e la domanda pressante d’inclusione sociale nazionale ed internazionale. Non è possibile umanizzare luoghi allestiti per processare non persone colpevoli di crimini commessi, suscettibili di essere giudicati in tribunale con aggravanti ed attenuanti, ma per punire i “colpevoli” di povertà con l’unico torto di essere nati nella sponda sbagliata del Mediterraneo. Ma dietro queste gabbie d’acciaio, dietro queste giovani facce smarrite e disperate, qualcosa sta morendo della nostra umanità e della nostra civiltà.
Una civiltà che sarà salvata dall’ultima speranza sempre possibile in democrazia. Una speranza che si chiama resistenza e disobbedienza civile. Resistenza che ha il volto di giornalisti liberi e attivisti coraggiosi che in questi anni non si sono mai arresi alle nefandezza di una legge iniqua. Nell’ombra, con tenacia e molta intelligenza delle leggi e delle pastoie burocratiche, hanno tenuto alta la bandiera della resistenza e della solidarietà fattiva con le persone ingiustamente detenute dentro i Cie.
I nostri avventurosi viaggi, lo scambio di mail e di sms, le lunghe discussioni, i pochi contrasti e le numerose convergenze sul tema dei Cie e dell’immigrazione sono la parte migliore del mio lavoro di parlamentare. Proprio da qui vogliamo partire. Dalla necessaria alleanza democratica per dire un sonoro basta contro i “Bantustan” dell’illegalità e della disumanità, per gridare al governo che l’Italia ripudia i templi della tortura di stato che sono i Cie. Per dire un si deciso ad un cambio di rotta, di linguaggio e di pratiche sull’immigrazione. Per dire tutti insieme che la convivenza civile si raggiunge costruendo politiche ispirate ai valori di umanità e a soluzioni razionali.
Per questo, con la mobilitazione del 25 luglio, diciamo a Maroni, al governo e al paese assuefatto alla retorica del nemico straniero, “lasciateCIEntrare” per liberare l’uomo che c’è in noi e nelle persone detenute senza colpa, per liberare il paese dal caos delle leggi del “Pacchetto-Sicurezza” ed instaurare il cosmos della convivenza senza paure e fughe demagogiche.

"LasciateCIEntrare" - Lunedì 25 luglio tutti davanti ai Centri di accoglienza in nome dei diritti umani e della libertà di informazione


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