di Daniela de Robert
Venticinque sacchi blu petrolio distesi sul molo Favaloro di Lampedusa. Questa volta i morti li vediamo, uno a fianco all’altro. Non i loro volti, già in fase di decomposizione quando li hanno trovati chiusi nella stiva con i segni della lotta per la sopravvivenza. Una lotta che hanno perso. Sono lì distesi. Prima di sbarcare sul tanto agognato territorio italiano, sono rimasti sul ponte della motovedetta della Guardia di Finanza, sotto gli sguardi dei turisti che navigavano a largo della Sicilia.
Il loro viaggio è durato poco. Sono morti asfissiati dentro la stiva della nave che doveva portarli a cercare la vita. Sono morti uno sull’altro. Hanno urlato, battuto sul legno, cercato di aprire la piccola botola da cui erano entrati. Uno di loro c’è riuscito. Per questo l’anno buttato in mare. È il corpo che manca. Forse tra qualche giorno finirà nelle reti di qualche pescatore, come spesso succede in quel tratto di mare.
Per i venticinque senza vita il calvario non è finito. Per loro il posto manca anche al cimitero. Dovranno essere distribuiti un po’ qui e un po’ lì. A loro e ai loro cari sopravvissuti non è stata concessa neanche una veglia funebre. I vivi sono stati portati nei CIE. I morti saranno sepolti senza nome da qualche parte nell’Italia dei loro sogni.
“Non si può rimanere insensibili davanti a quei cadaveri recuperati dentro una stiva di un barcone – ha detto il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Morgagni. Quei corpi ci devono far riflettere su cosa è un uomo e su quanto infinitamente vale”.
Per i trafficanti di uomini la loro vita valeva il prezzo del viaggio. Per i loro cari molto di più. E per noi che li vediamo arrivare stremati sulle nostre coste, lavorare in nero nei campi e nei cantieri, chiedere i loro diritti con gli scioperi e con le proteste, accudire i nostri anziani, trascorrere mesi nelle non prigioni chiamate CIE, quanto valgono le loro vite?
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