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Mino non si faceva omologare, era un credente di sinistra ma non un catto-comunista
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di Marco Giudici

Mino non si faceva omologare, era un credente di sinistra ma non un catto-comunista

L'articolo verrà pubblicato anche su Europa Quotidiano
Conservo una scheda della redazione di “3131”, la trasmissione radiofonica della prima rete Rai, con l’appunto della telefonata di un ascoltatore, passata al conduttore Corrado Guerzoni: “Il ministro dice cose così sensate e sagge che fa sentire pienamente uomo, con la sua dignità, anche l’ultimo dei detenuti”. Eravamo a metà degli anni ’80, e quella mattinata trascorsa negli studi di via Asiago è un segno tra i tanti: Mino Martinazzoli era un politico ascoltato e rispettato. Da tutti indistintamente. Lo è sempre stato, anche dai colleghi politici che non condividevano. La notizia della sua scomparsa, purtroppo non inaspettata, mi raggiunge e mi accompagna lontano, negli Stati Uniti.

Ho sentito al telefono gli amici di Brescia e i colleghi parlamentari, le mie emozioni in queste ore sono tumultuose, il pensiero corre all’agosto 1983, al primo incontro al Ministero della Giustizia, a via Arenula, dove mi diede appuntamento poco dopo essere stato nominato ministro. Non ci conoscevamo, malgrado le mie origini bergamasco-bresciane abbiano spesso generato l’equivoco di un rapporto nato al nord, in precedenza. Allora facevo il giornalista, trasferito da qualche anno da Milano a Roma, e Martinazzoli cercava un capo ufficio stampa.

L’ho seguito per dieci lunghi anni, per me straordinariamente formativi, che adesso si condensano in un pensiero di gratitudine. Di lui ricordo l’intelligenza raffinata e lo spirito liberal, il gusto per lo spiazzamento dialettico e l’inclinazione all’anticonformismo politico. Sfuggiva alle etichette, non si faceva omologare, era un credente di sinistra ma non un catto-comunista.

Il suo nome è legato soprattutto al ruolo di ultimo segretario della Dc, un incarico dal destino segnato in partenza, dove la passione cozzava con la storia. L’anno e mezzo trascorso a Piazza del Gesù, tra l’ottobre ’92 e il marzo ’94, quando le cronache avevano già trasformato il palazzo in un fortino semideserto e ripulito dalle auto blu, bombardato dalle cannonate di tangentopoli, va ascritto tra le imprese più temerarie della vita politica italiana di fine secolo. Accettando la candidatura sapeva che il tentativo era disperato.

Fu garantista quando era impopolare esserlo e lucidamente critico, ante litteram, dei rischi del berlusconismo incipiente. Il primo “no” lo aveva pronunciato nel ’90 dimettendosi da ministro della Difesa contro la legge Mammì, il secondo lo oppose da segretario del Partito popolare, alla vigilia della famosa “discesa in campo”, ostinandosi a considerare la politica e le istituzioni una cosa, e il cavalier Berlusconi un’altra. Non incompatibili, perché l’imprenditore può servire le istituzioni, ma certamente non confondibili.

Sicché l’atteggiamento lineare al limite dell’ingenuità che Martinazzoli mostrò nei due incontri vis-à-vis che ebbe ad Arcore e a Brescia, offrendo a Berlusconi un seggio da senatore, fu l’antitesi di una sottovalutazione. In quel momento l’intuizione di conseguenze nefaste a lunga scadenza valeva più dei pronostici. Quando il voto della primavera ’94 premiò Berlusconi e la destra, Martinazzoli trasse le conseguenze con un’immediatezza che fece discutere: si dimise con un semplice fax, dalla sua Brescia. Ricordo che trasmise materialmente al mio apparecchio la lettera, perché sennò, mi disse scherzando al telefono, “gli altri, lì, è capace che dicono di non aver ricevuto nulla, e che non c’è nessun fax”.

Alle elezioni l’alleanza di centro propugnata dal Partito popolare, come la Dc era tornata a chiamarsi in omaggio al progetto sturziano originario (ma anche separandosi da Casini e Mastella, che avevano costituito il Ccd) raccolse il 16% su base nazionale, un bottino che oggi a molti apparirebbe robustissimo, ma che allora si palesò come una sconfitta irrimediabile. Il modo insolito scelto da Martinazzoli per prendere atto della sconfitta e togliersi dalla scena, deprecato allora dai compagni di partito e divenuto invece quasi leggendario per chi guarda oggi ai cinquant’anni di storia della Dc, descrive in modo esemplare l’uomo e il politico.

Schivo, insofferente verso ogni trombonismo del potere, affabulatore straordinario di fronte alla platea, ammetteva tuttavia la sua inattualità rispetto a molti accidenti della vita. Non amava i giornalisti, anche se poi le sue citazioni più care erano di un giornalista satirico, l’ebreo austriaco Karl Kraus. Detestava l’aereo, e pure la televisione. Come leader politico, il corto circuito con la tv gli costò obiettivamente parecchio, menomandone l’efficacia comunicativa. Fascino ne aveva da vendere, ma il suo modo di porsi era profondamente anti-televisivo, per indole e anche quasi per principio. Restano proverbiali, indicativi di uno stile, il suo rifiuto di andare ospite da Santoro e la sentenza implacabile sul programma: “una fumeria d’oppio”. L’espressione è periodicamente rinverdita dagli avversari del conduttore.

Al di là degli stereotipi che lo volevano un politico letterato, Martinazzoli è stato un politico di “fatti”, e il tempo che meglio riassume la sobria concretezza del suo agire – meglio ancora di quando fu segretario di partito, o prima capogruppo alla Camera – sono i tre anni da guardasigilli. Il varo del nuovo processo penale accusatorio, “alla Perry Mason”, la legislazione per l’umanizzazione della pena carceraria, i nuovi trattati di estradizione (tra cui quello con gli Usa, che consentì i giudizi a carico di Badalamenti, Buscetta e Sindona), l’allestimento del primo, storico maxi-processo di Palermo contro la mafia. Su questa azione di governo basta il giudizio di Indro Montanelli, che in un editoriale definì Martinazzoli il miglior ministro della giustizia che la Repubblica avesse avuto dai tempi di Togliatti.


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