di Roberto Morrione
Gli Stati Generali Antimafia indetti da Libera parleranno ai vivi, ma non scorderanno i morti. Per il dovere della memoria, ma ancor più perché affermare i diritti di tutti contro il crimine e la corruzione è combattere la stessa battaglia nella quale tanti hanno perso la vita. Significa che la loro battaglia è ancora aperta e che va portata avanti, se non vogliamo che ne resti solo il rimpianto. Un’identica battaglia, nonostante molti non l’abbiano capito o fingano di non averlo compreso, per convenienza o per viltà o, come gran parte dei media, l’abbiano rimosso per ignavia e per i condizionamenti del potere.
Nonostante gli assassinati rappresentino la parte migliore del nostro mestiere e ci indichino oggi la strada da seguire, la difesa a oltranza della libertà di stampa, mentre si fa più pesante la pressione intimidatrice, l’aria mefitica del regime, l’attacco in corso contro le istituzioni e i diritti di tutti i cittadini a essere informati. Per questo motivo, sentiamo la necessità di rivolgere la parola ai giornalisti assassinati dalle mafie, ai loro familiari, ai magistrati, agli investigatori, a tutti coloro che non considerano quei delitti come numeri negli archivi, mummificati da sentenze che non hanno chiarito moventi, mandanti, complicità, situazioni ambientali.
Per questo vogliamo rivolgerci a coloro che sono stati colpiti negli affetti più cari, ma che non si arrendono. Penso a Claudio ed Elena Fava, che portano avanti con orgoglio l’eredità di Pippo Fava, ma Claudio deve poi scrivere nel suo “I disarmati” delle tante occasioni perdute e di quelle tradite, in un’Italia malgovernata e disinformata, in una Catania ancora prigioniera del malaffare e della corruzione. E ai giornalisti della nidiata de “I Siciliani”, cronisti coraggiosi e penne di grande valore, poi dispersi nel mare del mercato editoriale, ma a volte, come per Riccardo Orioles, ani- matori di mille battaglie sconosciute, tenacemente costruite dal basso, formative per tanti altri giovani. Senza soldi, ma anche senza paura.
Penso a Mauro Rostagno e alle tormentate vicende che hanno dovuto affrontare la figlia Maddalena, la sua compagna Chicca e la sorella Carla, per tenere aperte indagini che portassero a una verità ancora lontana, ma per la quale si sono adoperati cittadini, magistrati capaci come Antonio Ingroia, validi investigatori come Giuseppe Linares a Trapani.
Penso a Giovanni Impastato, che in ogni parte d’Italia porta non solo il ricordo di Peppino, di Radio Aut e della lunga guerra giudiziaria per fare emergere una verità nascosta, deformata da complicità e silenzi, ma anche per difendere il patrimonio civile e morale di suo fratello dagli atti di aggressione e sottocultura che si susseguono ormai nel Paese.
Penso a Sonia Alfano, che ha trasferito nel parlamento di Strasburgo l’impegno civile cresciuto dopo l’uccisione del padre Giuseppe. Penso a Paolo Siani, che porta il sorriso gentile del fratello Giancarlo, assassinato a 26 anni, nel cuore di manifestazioni che premiano giovani che hanno scelto la strada del giornalismo d’inchiesta, in un film, nella pubblicazione di articoli che ridanno il senso di una passione civile e professionale, oggi insultata e aggredita come mai è avvenuto in un paese democratico.
Penso a Mauro De Mauro e alla sua famiglia, che ancora non sa dallo Stato perché, come e da parte di chi il giornalista de “L’Ora” di Palermo fu rapito e ucciso quarant’anni fa, sullo sfondo di cospirazioni contro le istituzioni, deviazioni, intrecci che riportano agli inquietanti segnali che costellano anche questi nostri anni e che si profilano nell’immediato futuro.
Penso al giovanissimo Giovanni Spampinato, ucciso nel ’72 a Ragusa e a suo fratello Alberto, che tanti anni dopo ne ha tratteggiato la drammatica storia in un bel libro, mentre sta formando un osservatorio appoggiato dalla FNSI per non lasciare soli e indifesi i giornalisti, circa 200 negli ultimi anni, aggrediti o minacciati dalle mafie per il loro impegno di lavoro. Una cifra enorme, non conosciuta, che ricorda tristemente alcuni paesi latino-americani in mano ai narcotrafficanti.
Penso alle battaglie condotte dalla famiglia di Mario Francese per riaprire l’inchiesta ormai chiusa sull’uccisione del bravissimo cronista del “Giornale di Sicilia” e al mistero che ancora circonda l’assassinio di Cosimo Cristina, il primo giornalista ucciso nel 1960.
Penso infine a Giorgio e Luciana Alpi, indomiti genitori che chiedono da 15 anni verità e giustizia sulla morte di Ilaria, assassinata a Mogadiscio insieme con l’operatore Miran Hrovatin, mentre realizzava una delicatissima inchiesta sui traffici d’armi e rifiuti tossici con l’Italia, dove anche gli interessi mafiosi erano presenti. Mentre emerge la realtà delle “navi dei veleni” affondate nel Mediterraneo, con la rete di complicità e gli intrecci affaristici che ne formano lo sfondo, l’attualità di questo giornalismo colpisce come uno schiaffo morale coloro che vogliono imporre il bavaglio alla libertà di stampa, annullando i pochi spazi critici non piegati dal conformismo e dalla subalternità al potere che sta stravolgendo il Paese.
Se ne parlerà a Contromafie. E il respiro che ancora sale dalle vite spezzate di quei nostri fratelli, caduti sul fronte delle notizie come gli inviati di guerra, farà più forte l’impegno.