Articolo 21 - INFORMAZIONE
Carcere: quattro storie e una “notizia” che non fanno “notizia”
di Valter Vecellio
Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura Juan Mendez, riferendo alla commissione diritti umani dell’assemblea generale dell’ONU ha detto che “i lunghi periodi di detenzione in isolamento possono provocare gravi danni fisici e mentali e pertanto costituire una forma di tortura”. A qualcuno dovrebbero cominciare a ronzare le orecchie. Mendez esorta i governi a rinunciare al ricorso a lunghe pene detentive in isolamento per i detenuti rinchiusi nelle carceri, e in particolare a non usare l’isolamento su persone affette da deficit mentali e giovani.
L’isolamento per brevi periodi, aggiunge Mendez, è praticabile, anche per la tutela degli stessi detenuti ma qualunque forma di isolamento di una durata superiore ai 15 giorni dovrebbe essere bandita. Isolamento che, per come viene attuato nella maggior parte dei paesi, fa si che si verifichino “abusi generalizzati…Considerato il grave danno o la sofferenza mentale che può produrre, l’isolamento può costituire tortura, o trattamento crudele, disumano o degradante se usato come punizione durante la detenzione preprocessuale, a tempo indefinito o per un periodo di tempo protratto, per persone con deficit mentali o per giovani”.
Mendez in particolare critica le autorità cinesi per aver tenuto in isolamento per due anni una donna condannata a otto anni per aver ceduto segreti di stato a stranieri. Ma, come diceva un film ormai diventato classico, la Cina è vicina…
Nell’universo carcerario si consumano storie e vicende emblematiche. Storie tra loro diverse, ma una relazione c’è.
La prima storia viene da Roma. Dicono che avesse problemi di carattere familiare l’ispettore della polizia penitenziaria che l’altro giorno ha caricato la pistola d’ordinanza, se l’è puntata alla tempia e ha fatto fuoco. Si chiamava Sergio, aveva 47 anni, era in servizio nel carcere di Regina Coeli; e forse sì, aveva davvero problemi familiari, chissà. Ma oltre ai problemi privati, ci sono le condizioni in cui gli agenti di polizia si trovano a lavorare, che sono drammatiche; c’è un generale e complessivo peggioramento della qualità della vita: sia per i detenuti che per tutti i componenti della comunità penitenziaria: agenti di polizia, operatori, volontari. Un clima di perenne emergenza e di precarietà che certamente influisce. E sono ormai tanti gli agenti della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita: in 11 anni, ben 88. Una strage che si preferisce ignorare, come si preferisce ignorare la strage dei detenuti che si tolgono la vita o cercando di farlo.
La seconda storia, da Trieste. L’avvocato Robeto Gambel Benussi è il presidente dell’Ordine degli avvocati della sua città. Dice: “Siamo tutti a conoscenza delle condizioni in cui versa il carcere triestino e quelle di vita dei detenuti che vi sono ospitati. Sono condizioni al limite, se non oltre il limite, come sostanzialmente in tutte le carceri d’Italia”.
A Trieste è scoppiato quello che è stato definito il “caso delle finestre”. Piccola cosa, si dirà, nel mare magnum dei problemi del pianeta carcere. Vicenda però paradigmatica.
Alle finestre del carcere triestino non ci sono vetri ma cartoni; questo per la buona ragione che mancano i soldi per ripararle, o per sostituirle. La vicenda era stata denunciata già a settembre dalla consigliera comunale del Pd Maria Grazia Cogliati Dezza, che aveva richiamato l’attenzione su una situazione di diffuso degrado delle celle: dai muri scrostati, alla presenza di scarafaggi e zanzare, dal caldo soffocante alle docce rotte; e una capienza arrivata al collasso: 270 detenuti a fronte dei 155 previsti come quota massima. Poi l’ultimo episodio, il caso limite: due finestre di altrettante celle si sono rotte, una da un detenuto; l’altra dalle forti raffiche di Bora. In cassa non c’è il becco di un euro, e allora che si fa? I vertici del carcere decidono di rimpiazzarle con un sistema di gioco ad incastri.
Due finestre sono state asportate dagli uffici al pianterreno, precisamente dalla sala dove gli avvocati incontrano i detenuti loro assistiti. Al posto di quelle due finestre, sono stati sistemati, e fissati con lo scotch, dei cartoni. A far cadere la preferenza sulle due finestre in questione, è stato un motivo semplice: sono infatti compatibili con misure e necessità delle celle. E se i soldi dovessero continuare a mancare? “Le prossime finestre, eventualmente, saranno rimosse dalle sale a disposizione dei magistrati e del direttore...”, sorride amaro Enrico Sbriglia, direttore del carcere. Sbriglia è quindi pronto, in caso di necessità, a piazzare i cartoni al posto delle vetrate anche nel suo ufficio: “Se la nostra prima missione è quella di custodire le persone, non possiamo che farlo nel rispetto delle norme. Non sarebbe cosa ragionevole che i detenuti fossero lasciati all’addiaccio”.
Commenta l’avvocato Gambel Benussi: “È meglio che abbiano fatto così, togliendo le due finestre e sistemandole nelle celle, visto che i detenuti devono viverci lì dentro, mentre noi tutto sommato possiamo starci a volte anche dieci minuti e tenere quindi addosso il cappotto…Prenderemo contatti con la direzione del carcere per vedere di risolvere almeno questa emergenza, assieme alla Camera penale. I fondi? Mi pare possano arrivare o da noi o da noi; è chiaro che non possiamo rifare il carcere ma capire cosa succede per due finestre sì”.
Terza storia, di un detenuto: F.T.: arrestato il 16 luglio 2004, e detenuto a Pavia. Nell’ottobre di quell’anno, durante una partita di calcio, subisce la rottura dei legamenti crociati del ginocchio destro. Dopo il primo intervento, sottoposto a visita ortopedica, gli dicono che i legamenti sono ancora rotti, ma riceve assicurazioni che a breve sarà riportato in ospedale per essere operato.
Passano “a breve”, due anni. Nel frattempo viene trasferito a Monza; una volta a Monza, gli dicono che si sono sbagliati, perché in quel carcere non sono attrezzati ad affrontare un caso come il suo. Riconosciuto l’errore che si fa? Lo si lascia lì. Inizia uno sciopero della fame e della sete. Si decidono finalmente a ricoverarlo all’ospedale S. Gerardo di Monza. L’11 febbraio 2008 viene trasferito al carcere di Torino, per fare della fisioterapia. Qui il fisioterapista gli dice che è stato portato troppo tardi, la gamba sarebbe rimasta bloccata. Non finisce qui: F.T. cade nel corridoio del carcere, a causa del pavimento bagnato sul quale le stampelle non aderiscono bene: i legamenti nuovamente rotti.
F.T. viene riportato al carcere di Torino; trascorrono due mesi senza che nulla sia fatto, poi viene nuovamente trasferito a Monza. Grazie all’immobilismo della vita carceraria e della gamba di F.T. ricava così due ernie inguinali, frutto dell’assenza di fisioterapia e di cure adeguate. L’estate del 2009 F.T. fa un nuovo uno sciopero della fame di 17 giorni. Scrive più volte al magistrato di sorveglianza, al dirigente sanitario; silenzio. Per una banale rottura dei legamenti, occorsa nel lontano 2004, normalmente curabile massimo in un paio di mesi, F.T. si trova ora con una perdita totale di funzionalità di una gamba e con due ernie causate dal sovraccarico che l’altra gamba ha dovuto sopportare in questi lunghi anni.
Finalmente, lo scorso giugno, grazie agli avvocati e al difensore civico di “Antigone”, il Magistrato di Sorveglianza si degna di rispondere e accoglie il reclamo e sollecita la Direzione della casa Circondariale di Monza ad effettuare controlli specialistici “al fine di sottoporre F.T. ad un nuovo intervento”; e nel frattempo, a permettergli di “svolgere la fisioterapia, sollecitando anche l’Amministrazione ad un trasferimento di F.T. in una struttura più idonea per ragioni di tutela non solo della salute, ma anche della “dignità della persona”. La decisione del Magistrato di Sorveglianza è dello scorso giugno. Da allora nulla.
Ancora due notizie. Una signora, condannata per essere stata la mandante dell’omicidio dell’ex marito, rinuncia alla semilibertà, perché non ha mai lavorato e preferisce restare in cella: e si parla di “lady Gucci”. Contemporaneamente si viene a sapere che su 1.322 persone rinchiuse in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ben 213 dovrebbero essere poste in libertà. Però… continuano però a restare detenuti negli istituti perché il magistrato di sorveglianza proroga mese dopo mese la misura di sicurezza. Non ne ha parlato nessuno. D’accordo che la notizia è il postino che morde il cane, ma 213 persone rinchiuse in quel piccolo grande inferno che sono gli OPG nonostante i collegi peritali abbiano stabilito che possono essere liberati, dovrebbe comunque essere una “notizia”…
Quei poveretti continuano a restare detenuti per l’impossibilità, si spiega con linguaggio burocratico, di “riallocarli sul territorio”. Significa che non hanno casa, famiglia, lavoro, nessuno che li assista e aiuti. E allora anche se dovrebbero essere liberati, continuano a restare in carcere.
A questo punto ci si potrebbe chiedere cosa stiano facendo, al riguardo, i ministri della Giustizia Nitto Palma e quello della Salute Ferruccio Fazio. Devono verificare quanti sono realmente i “dimissibili”. Perché non lo sanno. Sono 213, ora lo sanno; e comunque lo possono verificare in un paio di giorni. Ma non vogliono solo sapere quanti sono; vogliono anche studiare la possibilità di quelli che chiamano “percorsi di riallocazione sul territorio”. Quanto ci metteranno per fare questo studio? “Speriamo possano essere attivi nello spazio di sei mesi”, fanno sapere. Sei mesi, se va bene. Intanto 213 persone che dovrebbero essere fuori, libere, continueranno a stare rinchiuse in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Verrebbe da dire: perché non ci vanno loro, per provare come ci si vive, non sei mesi, ma sei giorni?
L’isolamento per brevi periodi, aggiunge Mendez, è praticabile, anche per la tutela degli stessi detenuti ma qualunque forma di isolamento di una durata superiore ai 15 giorni dovrebbe essere bandita. Isolamento che, per come viene attuato nella maggior parte dei paesi, fa si che si verifichino “abusi generalizzati…Considerato il grave danno o la sofferenza mentale che può produrre, l’isolamento può costituire tortura, o trattamento crudele, disumano o degradante se usato come punizione durante la detenzione preprocessuale, a tempo indefinito o per un periodo di tempo protratto, per persone con deficit mentali o per giovani”.
Mendez in particolare critica le autorità cinesi per aver tenuto in isolamento per due anni una donna condannata a otto anni per aver ceduto segreti di stato a stranieri. Ma, come diceva un film ormai diventato classico, la Cina è vicina…
Nell’universo carcerario si consumano storie e vicende emblematiche. Storie tra loro diverse, ma una relazione c’è.
La prima storia viene da Roma. Dicono che avesse problemi di carattere familiare l’ispettore della polizia penitenziaria che l’altro giorno ha caricato la pistola d’ordinanza, se l’è puntata alla tempia e ha fatto fuoco. Si chiamava Sergio, aveva 47 anni, era in servizio nel carcere di Regina Coeli; e forse sì, aveva davvero problemi familiari, chissà. Ma oltre ai problemi privati, ci sono le condizioni in cui gli agenti di polizia si trovano a lavorare, che sono drammatiche; c’è un generale e complessivo peggioramento della qualità della vita: sia per i detenuti che per tutti i componenti della comunità penitenziaria: agenti di polizia, operatori, volontari. Un clima di perenne emergenza e di precarietà che certamente influisce. E sono ormai tanti gli agenti della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita: in 11 anni, ben 88. Una strage che si preferisce ignorare, come si preferisce ignorare la strage dei detenuti che si tolgono la vita o cercando di farlo.
La seconda storia, da Trieste. L’avvocato Robeto Gambel Benussi è il presidente dell’Ordine degli avvocati della sua città. Dice: “Siamo tutti a conoscenza delle condizioni in cui versa il carcere triestino e quelle di vita dei detenuti che vi sono ospitati. Sono condizioni al limite, se non oltre il limite, come sostanzialmente in tutte le carceri d’Italia”.
A Trieste è scoppiato quello che è stato definito il “caso delle finestre”. Piccola cosa, si dirà, nel mare magnum dei problemi del pianeta carcere. Vicenda però paradigmatica.
Alle finestre del carcere triestino non ci sono vetri ma cartoni; questo per la buona ragione che mancano i soldi per ripararle, o per sostituirle. La vicenda era stata denunciata già a settembre dalla consigliera comunale del Pd Maria Grazia Cogliati Dezza, che aveva richiamato l’attenzione su una situazione di diffuso degrado delle celle: dai muri scrostati, alla presenza di scarafaggi e zanzare, dal caldo soffocante alle docce rotte; e una capienza arrivata al collasso: 270 detenuti a fronte dei 155 previsti come quota massima. Poi l’ultimo episodio, il caso limite: due finestre di altrettante celle si sono rotte, una da un detenuto; l’altra dalle forti raffiche di Bora. In cassa non c’è il becco di un euro, e allora che si fa? I vertici del carcere decidono di rimpiazzarle con un sistema di gioco ad incastri.
Due finestre sono state asportate dagli uffici al pianterreno, precisamente dalla sala dove gli avvocati incontrano i detenuti loro assistiti. Al posto di quelle due finestre, sono stati sistemati, e fissati con lo scotch, dei cartoni. A far cadere la preferenza sulle due finestre in questione, è stato un motivo semplice: sono infatti compatibili con misure e necessità delle celle. E se i soldi dovessero continuare a mancare? “Le prossime finestre, eventualmente, saranno rimosse dalle sale a disposizione dei magistrati e del direttore...”, sorride amaro Enrico Sbriglia, direttore del carcere. Sbriglia è quindi pronto, in caso di necessità, a piazzare i cartoni al posto delle vetrate anche nel suo ufficio: “Se la nostra prima missione è quella di custodire le persone, non possiamo che farlo nel rispetto delle norme. Non sarebbe cosa ragionevole che i detenuti fossero lasciati all’addiaccio”.
Commenta l’avvocato Gambel Benussi: “È meglio che abbiano fatto così, togliendo le due finestre e sistemandole nelle celle, visto che i detenuti devono viverci lì dentro, mentre noi tutto sommato possiamo starci a volte anche dieci minuti e tenere quindi addosso il cappotto…Prenderemo contatti con la direzione del carcere per vedere di risolvere almeno questa emergenza, assieme alla Camera penale. I fondi? Mi pare possano arrivare o da noi o da noi; è chiaro che non possiamo rifare il carcere ma capire cosa succede per due finestre sì”.
Terza storia, di un detenuto: F.T.: arrestato il 16 luglio 2004, e detenuto a Pavia. Nell’ottobre di quell’anno, durante una partita di calcio, subisce la rottura dei legamenti crociati del ginocchio destro. Dopo il primo intervento, sottoposto a visita ortopedica, gli dicono che i legamenti sono ancora rotti, ma riceve assicurazioni che a breve sarà riportato in ospedale per essere operato.
Passano “a breve”, due anni. Nel frattempo viene trasferito a Monza; una volta a Monza, gli dicono che si sono sbagliati, perché in quel carcere non sono attrezzati ad affrontare un caso come il suo. Riconosciuto l’errore che si fa? Lo si lascia lì. Inizia uno sciopero della fame e della sete. Si decidono finalmente a ricoverarlo all’ospedale S. Gerardo di Monza. L’11 febbraio 2008 viene trasferito al carcere di Torino, per fare della fisioterapia. Qui il fisioterapista gli dice che è stato portato troppo tardi, la gamba sarebbe rimasta bloccata. Non finisce qui: F.T. cade nel corridoio del carcere, a causa del pavimento bagnato sul quale le stampelle non aderiscono bene: i legamenti nuovamente rotti.
F.T. viene riportato al carcere di Torino; trascorrono due mesi senza che nulla sia fatto, poi viene nuovamente trasferito a Monza. Grazie all’immobilismo della vita carceraria e della gamba di F.T. ricava così due ernie inguinali, frutto dell’assenza di fisioterapia e di cure adeguate. L’estate del 2009 F.T. fa un nuovo uno sciopero della fame di 17 giorni. Scrive più volte al magistrato di sorveglianza, al dirigente sanitario; silenzio. Per una banale rottura dei legamenti, occorsa nel lontano 2004, normalmente curabile massimo in un paio di mesi, F.T. si trova ora con una perdita totale di funzionalità di una gamba e con due ernie causate dal sovraccarico che l’altra gamba ha dovuto sopportare in questi lunghi anni.
Finalmente, lo scorso giugno, grazie agli avvocati e al difensore civico di “Antigone”, il Magistrato di Sorveglianza si degna di rispondere e accoglie il reclamo e sollecita la Direzione della casa Circondariale di Monza ad effettuare controlli specialistici “al fine di sottoporre F.T. ad un nuovo intervento”; e nel frattempo, a permettergli di “svolgere la fisioterapia, sollecitando anche l’Amministrazione ad un trasferimento di F.T. in una struttura più idonea per ragioni di tutela non solo della salute, ma anche della “dignità della persona”. La decisione del Magistrato di Sorveglianza è dello scorso giugno. Da allora nulla.
Ancora due notizie. Una signora, condannata per essere stata la mandante dell’omicidio dell’ex marito, rinuncia alla semilibertà, perché non ha mai lavorato e preferisce restare in cella: e si parla di “lady Gucci”. Contemporaneamente si viene a sapere che su 1.322 persone rinchiuse in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ben 213 dovrebbero essere poste in libertà. Però… continuano però a restare detenuti negli istituti perché il magistrato di sorveglianza proroga mese dopo mese la misura di sicurezza. Non ne ha parlato nessuno. D’accordo che la notizia è il postino che morde il cane, ma 213 persone rinchiuse in quel piccolo grande inferno che sono gli OPG nonostante i collegi peritali abbiano stabilito che possono essere liberati, dovrebbe comunque essere una “notizia”…
Quei poveretti continuano a restare detenuti per l’impossibilità, si spiega con linguaggio burocratico, di “riallocarli sul territorio”. Significa che non hanno casa, famiglia, lavoro, nessuno che li assista e aiuti. E allora anche se dovrebbero essere liberati, continuano a restare in carcere.
A questo punto ci si potrebbe chiedere cosa stiano facendo, al riguardo, i ministri della Giustizia Nitto Palma e quello della Salute Ferruccio Fazio. Devono verificare quanti sono realmente i “dimissibili”. Perché non lo sanno. Sono 213, ora lo sanno; e comunque lo possono verificare in un paio di giorni. Ma non vogliono solo sapere quanti sono; vogliono anche studiare la possibilità di quelli che chiamano “percorsi di riallocazione sul territorio”. Quanto ci metteranno per fare questo studio? “Speriamo possano essere attivi nello spazio di sei mesi”, fanno sapere. Sei mesi, se va bene. Intanto 213 persone che dovrebbero essere fuori, libere, continueranno a stare rinchiuse in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Verrebbe da dire: perché non ci vanno loro, per provare come ci si vive, non sei mesi, ma sei giorni?
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