di Filippo Vendemmiati
“Gentile dottor Abate,
il Procuratore Generale di Milano ha scritto che il caso di Giuseppe Uva merita maggiore rispetto e maggiore considerazione. Come può, Dott. Abate, continuare a sostenere la sua posizione, dopo che per tre anni e quattro mesi è rimasto sordo ad ogni nostra reiterata richiesta di perizia, poiché affermava che la causa della morte di Giuseppe Uva fosse dovuta ai farmaci?
Come si può vantare di considerare il caso Uva come una sua proprietà, quando persino il suo consulente tossicologo si è sottratto al confronto con gli altri periti? Io chiedo che qualcuno intervenga.
Lei, Dott. Abate, ha paura di sottoporre il fascicolo di indagine, aperto su mia denuncia due anni fa, ad un Giudice, in modo tale da non renderlo pubblico.
Io le chiedo come la nostra Giustizia possa funzionare in questo modo.
Con la rabbia e con il cuore. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ha scritto una lettera al magistrato titolare dell’inchiesta. Ha deciso di farlo dopo aver letto gli esiti di una perizia che suggerisce retroscena anche più gravi di quanto Lucia stessa sospettasse. L’ha scritta alla vigilia di un’udienza decisiva: venerdì prossimo il giudice Orazio Muscato potrebbe decidere di far riesumare la salma di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno del 2008, nel reparto psichiatrico dell’ospedale “Circolo” di Varese, dopo essere stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri. Dopo tre anni e mezzo la ricerca della verità può partire, le conclusioni dei periti super partes ( Demori, Ferrara, Thiene), nominati dal giudice, sono inequivocabili: Giuseppe non è morto per la somministrazione di un farmaco sbagliato. Lucia e i suoi legali ne sono sempre stati convinti, di parere contrario invece il pubblico ministero Agostino Abate, che, al termine delle sue indagini, ha portato a processo per omicidio colposo lo psichiatra Carlo Fraticelli “per la negligente somministrazione di farmaci calmanti in presenza di assunzione di alcol, condotta che avrebbe ingenerato una mortale depressione del sistema nervoso centrale”.
“Quello che si sta celebrando oggi è un processo che non c’entra nulla con la morte di Uva” attacca l’avvocato Fabio Anselmo. “Le conclusioni della perizia sconfessano totalmente l’inchiesta condotta da Abate”.
A questo punto del processo le parti civili potrebbero anche chiedere l’assoluzione dell’unico imputato, convinte che i responsabili di questa morte vadano cercati altrove, in caserma. Sui pantaloni di Uva i periti hanno rilevato tracce di sangue e sperma, c’è il sospetto fondato che l’uomo , 43 anni, addirittura possa essere stato violentato. I tre professori sono chiari su un punto: i farmaci somministrati sono inidonei a causare il decesso. Per questo suggeriscono la riesumazione del cadavere e gli accertamenti genetici. Il Dna di quelle tracce biologiche potrebbe infatti indicare i nomi dei responsabili della morte, identità per altro già note da tempo, ma sempre e incomprensibilmente tenute fuori dalle indagini. Familiari e avvocati da mesi denunciano le incongruenze di questa inchiesta. Alberto Biggiogero, fermato quella notte in compagnia di Uva, dalla caserma chiamò il 118, allarmato dalle urla provenienti dalla stanza dove l’amico era interrogato: non è mai stato ascoltato, forse perché ritenuto dallo stesso pubblico ministero “un ubriaco presente in Caserma, che comunque non ha visto niente, ha solo sentito delle urla”. La prima consulenza, firmata dal dottor Motta e depositata nel marzo del 2009, esclude traumi significativi come causa del decesso e l’embolia polmonare viene spiegata come effetto di un massaggio cardiaco durato 55 minuti. Il 17 agosto di quest’anno durante la riunione per l’incarico peritale, gli esperti fanno notare al dottor Motta, e lo mettono a verbale, che le sue conclusioni non “sono adeguatamente motivate dalle risultanze analitiche”. Il professor Ferrara gli chiede di precisare come siano state accertate eventuali fratture ossee. Il dottor Motta risponde: “Non ho eseguito radiografie perché alla palpazione il cadavere non presentava mobilità abnormi”.
Oggi al dottor Motta Lucia Uva scrive:
Dottor Motta,
vorrei sapere cosa pensa della sua tossicologa, assente ingiustificata, che non si è nemmeno presentata di fronte ai periti, quasi fosse una scolara che non va a scuola senza un motivo valido.
Vorrei sapere cosa ne pensano i massimi organi di Giustizia di tutto questo. Non posso farlo, ma mi piacerebbe chiedere al presidente del tribunale di Varese che cosa ne pensa di tutto questo.
Vorrei che la gente capisse che sono tre anni e quattro mesi che mi viene urlato in faccia che Giuseppe sarebbe morto per i farmaci e chi sostiene questa ipotesi, non appena è costretto a confrontarsi con i periti nominati dal Giudice, batte liberamente in ritirata. A me interessa solo avere Verità e Giustizia.
I jeans di Giuseppe Uva presentavano una vistosa macchia rossastra a livello del cavallo, ma inizialmente non fu fatto nessun accertamento. “E se fossero state macchie di pomodoro?” chiede polemicamente il pubblico ministero Abate al consulente dottor Begliomini. Lucia Uva ricorda bene di aver visto il corpo del fratello in ospedale poco dopo il decesso e di aver osservato che, sotto il pannolone, la zona ano-genitale era visibilmente sporca di sangue. Giuseppe, ricorda Lucia, mi fu restituito privo di vita, senza mutande e ricoperto del solo pannolone, recuperato chissà da dove. Luigi Manconi, presidente dell’Associazione A Buon Diritto ha riferito in pubblico, il 25 settembre di quest’anno a Ferrara durante l’iniziativa per il sesto anniversario della morte di Federico Aldrovandi, del suo incontro con il magistrato Agostino Abate.
“Il 4 maggio 2010 fui convocato in procura a Varese per essere ascoltato in merito ad un articolo in cui espressi i miei dubbi e le mie valutazioni sulla morte di Giuseppe Uva. Il colloquio durò circa due ore e ad un certo punto il magistrato mi disse...: Vede, dottor Manconi, lei forse non sa che quella notte Uva non indossava nemmeno le mutande. Cosa c’è da aspettarsi da uno così?”
Le mutande di Uva non sono mai state ritrovate, due infermieri testimoniano però di averle viste: “Erano macchiate e sono state buttate via”. Nell’udienza di venerdì prossimo, se il giudice disporrà, che la salma sia riesumata accoglierà non solo la richiesta dei tre periti da lui stesso nominati, ma anche degli stessi familiari di Uva, che per mesi l’ hanno avanzata inascoltati, come unica speranza e possibilità di aprire uno spiraglio di verità. Per questo un processo, che vede contestato un omicidio colposo per un errore medico, potrebbe presto chiudersi e lasciare il posto ad un’inchiesta e ad un giudizio, dove le accuse potrebbero prevedere l’omicidio preterintenzionale, la violenza sessuale e il sequestro di persona.
Filippo Vendemmiati