di Paolo Cacciari
Dopo Sarkozy e la Commissione Europea (vedi la direttiva: “Oltre il Pil: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”), ora anche Cnel e Istat (presieduto da Enrico Giovannini) si stanno dando da fare per abbandonare il Gross National Product al suo destino di inutilità. Se andate in www.misuredelbenessere.it potrete esprimere le vostre preferenze per caratterizzare il “Benessere” persino in modo “equo e sostenibile”. Un gioco di società, a dire il vero, non troppo fantasioso se i blocchi concettuali proposti (“domini”) per gli “indicatori di progresso” proposti, le nuove “tavole” intersettoriali che dovrebbe oggettivare la qualità della vita di ognuno di noi, sono: ambiente, salute, benessere economico, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, educazione e formazione, benessere soggettivo, relazioni sociali, sicurezza. Se manca qualche cosa, scriveteglielo. Promettono che sarete tenuti in considerazione.
Insomma, se i soldi non ci sono più (come lo è per la maggior parte di noi), meglio cercare la felicità in qualche cosa che sia più economica, indipendente dalla crescita del Pil. Riuscire a immaginare una idea di ricchezza non in termini monetari sarebbe un bel passo avanti per uscire dalle grinfie dei mercati. Nella teoria economica classica, di stampo utilitaristico, tuttora dominante, vi è una corrispondenza diretta tra denaro e felicità, tra abbondanza e benessere, tra prosperità economica e tenore di vita delle persone e delle popolazioni. Gli economisti illuministi del ‘700 pensavano all’Economia come alla “scienza della felicità pubblica”. Nella Dichiarazione di indipendenza della Virginia (1776), Thomas Jefferson introduce tra i diritti inalienabili di “tutti gli uomini”: “la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”.
Ora, il fallimento di questa promessa, la crisi di sistema che attraversa il mondo capitalistico più avanzato, ci dicono che con il Pil sarebbe bene accantonare anche il mito della crescita. Già la commissione dei Nobel presieduta da Stiglitz (La misura sbagliata delle nostre vite, Etas, 2010) aveva avanzato al presidente francese qualche anno fa le sue riserve su un indice alquanto rozzo come quello che ci ossessiona da settanta anni. Scrivono infatti Stiglitz, Sen, Fitoussi: “Ciò che misuriamo influenza ciò che facciamo. Se abbiamo indicatori sbagliati, ci sforzeremo di ottenere le cose sbagliate”. Da tempo è al lavoro una branca dell’economia che si occupa dell’“economia della felicità” (Daniel Kahneman, psicologo di formazione, ha ottenuto con degli studi su questa tematica un premio Nobel per l’economia nel 2002. Vedi anche: il “Journal of Happiness Studies”) e del suo paradosso: al crescere del Pil cala la felicità soggettivamente percepita dai singoli individui. Come Stefano Bartolini (Manifesto per la felicità, 2011) ci ha bene spiegato, esiste un circolo vizioso che alimenta degrado sociale e crescita economica. Più i beni comuni e relazionali (quelli forniti gratuitamente dalla natura o dalle buone pratiche familiari e comunitarie) si sfaldano, più è necessario compensare la loro assenza facendo ricorso a beni a pagamento. Insomma: più cresce il Pil peggio si sta e viceversa. Più crescono la solitudine, l’ansia, l’inquietudine, l’insicurezza, la depressione… più cresce la spesa per psicofarmaci, i servizi per la sicurezza e gli armamenti, i passatempi solitari, gli acquisti compulsivi e di beni di status. Insomma, rendere infelice la gente è una condizione per vendere di più.
Peccato solo che queste cose fossero chiare agli psicologi sociali già a fine anni ’60 all’apice del boom economico. Vale sempre la pena ricordare lo splendido discorso di Robert Kennedy del marzo del 1968, poco prima che lo ammazzassero: “ Il Pil contiene l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgomberare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. Contiene programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari (…) Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Down-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto nazionale lordo (…) Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. A risentirlo oggi (sul sito www.depiliamoci.it) c’è da emozionarsi e da scoraggiarsi per la regressione culturale che ha subito il riformismo democratico a tutte le latitudini. Viene il dubbio che alla Bocconi abbiano mai letto quelle pagine, se è vero che la parola più pronunciata da Monti nel suo discorso di insediamento è stata la parola “crescita”, esattamente come ebbe a fare Berlusconi e prima Prodi.
In attesa che gli indicatori statistici che guidano le scelte economiche cambino – e, con essi, cambino anche le scelte di politica economica – ci accontenteremmo che l’Istat sviluppasse i programmi di “Contabilità ambientale e pressioni sull’ambiente naturale” (il “metabolismo” della nostra società), evidenziasse i beni e i servizi che derivano dal lavoro domestico di cura e di educazione (non retribuito e, quindi, non rilevato), dall’autoproduzione e dall’autoaiuto comunitario, dalle prestazioni fornite volontariamente e gratuitamente dalle associazioni e dai gruppi di cittadinanza attiva presenti nei territori volti al presidio e alla preservazione dell’ambiente. Sappiamo bene che è impossibile riprodurre statisticamente tutto ciò che conta nella vita, ma abbiamo sicuramente imparato che il Pil non offre una buona rappresentazione della complessità delle interrelazioni tra gli esseri umani e tra loro e la natura.