Articolo 21 - INTERNI
In memoria di Leda e del suo impegno per le mamme detenute
di redazione
Centinaia di bambini sono usciti dal carcere grazie al suo lavoro e al suo impegno. Centinaia di piccoli tra gli zero e i tre anni hanno potuto vedere per la prima volta il mare, la neve, gli animali, i prati, una casa. Era il 1991 quando Leda Colombini costituì insieme ad altri l’associazione A Roma insieme. Da allora non si è più fermata.
“In realtà – racconta – i miei primi passi in carcere sono stati nel 1976 quando ero assessore agli enti locali e ai servizi sociali della Regione Lazio. Erano da poco state varate due riforme importanti, quella dell’ordinamento penitenziario e la legge sul decentramento amministrativo. Noi avevamo il compito di traghettare le competenze dalle Regioni agli enti locali nell’ambito dell’assistenza sanitaria, all’infanzia, agli anziani, all’handicap e a tutta l’area della marginalità, carcere compreso”
Per questo visitò tutte le prigioni del Lazio, incontrando la direzione, il personale e anche i detenuti e le detenute. E naturalmente i volontari presenti negli istituti, quasi esclusivamente di matrice cattolica.
Quell’anno Leda Colombini organizzò in Campidoglio in una sala gremita il primo incontro con le associazioni e gli enti convenzionati che operavano nell’ambito del sociale. “Mi ricordo che quando entrai, io assessore eletto nelle file del PCI, trovai una sala quasi completamente nera. Erano in stragrande maggioranza prete e suore. Erano loro che si occupavano del disagio sociale, che si trattasse di bambini, di anziani, di poveri o di carcerati. E noi abbiamo riconosciuto che il loro lavoro di assistenza aveva un valore sociale”. Il dialogo e il clima di apertura di quegli anni hanno fatto superare le reciproche diffidenze. “In quegli anni si respirava un clima diverso, c’era una gran voglia di cambiare il mondo, di migliorare le cose e questo ci ha aiutato molto”.
Di tutti quei mondi, quello che le è rimasto nel cuore è stato il carcere e soprattutto la realtà dei femminili. “Sono cresciuta con tre sorelle e una madre non sposata. E a quei tempi non era facile. Ho vissuto in prima persona l’ingiustizia e la discriminazione nei confronti delle donne e dei bambini. Forse è per questo che sono sempre molto attenta a questo aspetto”.
Con questa sensibilità, al Parlamento dove fu eletta nel 1983 promosse insieme a un gruppo trasversale di parlamentari donne la prima, e finora unica, indagine sulla detenzione femminile in Italia. “Il carico di dolore che è emerso era inimmaginabile. La spersonalizzazione, il senso di abbandono, la rottura violenta degli affetti, soprattutto con i figli, la modalità degli arresti erano i fattori che maggiormente determinavano in loro questa sofferenza per la quale ancora oggi non riesco a trovare le parole giuste capaci di descriverla”.
Poi con un’équipe dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, ha dato vita a un’altra indagine, questa volta sui bambini in carcere. La cosiddetta Gozzini aveva infatti consentito alle donne detenute di tenere con sé i figli sotto i tre anni di età. Un segnale di attenzione alla specificità della detenzione femminile, ma le cui conseguenze sui bambini non erano state ancora considerate.
Ma la svolta è arrivata con la costituzione dell’associazione A Roma insieme. “Quando siamo partiti il nostro obiettivo si poteva riassumere in mai più bambini in carcere. Poi, abbiamo cominciato la strategia dei piccoli passi per riuscire a cambiare una realtà troppo ingiusta. Da allora il reparto nido, che nel frattempo era nato, è cambiato molto diventando un luogo un po’ più adatto ai bambini, con la sala giochi, il giardino attrezzato per i più piccoli, i laboratori di arte-terapia e musico-terapia e molto altro ancora”.
Ma soprattutto A Roma insieme è riuscita a ottenere, dopo un lungo lavoro di preparazione, che si aprissero le porte dei nidi comunali esterni per i bambini detenuti. “Ci sono voluti anni di lavoro, ma poi ce l’abbiamo fatta. A settembre del 1994 sono usciti da Rebibbia femminile i primi cinque bambini. A prenderli c’era un pulmino attrezzato con a bordo un’operatrice del nido. Abbiamo dovuto superare resistenze interne ed esterne, ma la strada era aperta”. Da allora tutti i giorni, i piccoli escono dal carcere per andare all’asilo con i loro compagni “liberi”. “Siamo partiti con un progetto sperimentale che sarebbe dovuto durare un anno, ma poi è diventato permanente. Purtroppo finora però è l’unico in Italia”.
Prima di questa svolta, l’associazione aveva iniziato un altro “esperimento” che prevedeva l’uscita dei bambini per una giornata intera da trascorrere fuori, insieme ad altri bambini, in luoghi aperti. “Non potrò mai dimenticarmi gli occhi dei piccoli quando hanno visto per la prima volta il mare, gli animali della fattoria, la neve. Ricordo che una di loro, Edera, cercava di mettersi la neve in tasca per portarla a sua madre e ricordo anche Eugenia che dopo aver guardato a lungo la stanza di una delle volontarie che ospitava i bambini a casa sua ha detto “che bella cella che hai!””. Anche questa esperienza è diventata ormai una tradizione consolidata. “Dal 1994 tutti i sabato mattina portiamo fuori i bambini. Non siamo mai mancati, anche se capitava il 24 o il 25 dicembre.”
E poi c’era il trauma del distacco dei bambini al compimento dei tre anni. Qui in collaborazione stretta con l’ufficio sociale del Municipio e la direzione, A Roma insieme ha cercato di favorire la presa in affidamento dei piccoli presso una famiglia. “Da molti anni ormai non ci sono più bambini che finiscono negli istituti. Per loro si trova sempre una famiglia”. Grazie all’associazione la famiglia comincia a incontrare il bambino fuori, durante le gite del sabato. Poi va a trovare il bambino e la mamma dentro con i colloqui. “In questo modo si favorisce un passaggio graduale, evitando lo strappo dalla mamma, anche se il dolore della separazione rimane. Le famiglie però si impegnano a mantenere i rapporti con le madri per tutta a durata dell’affidamento e spesso anche con la fine della detenzione i contatti continuano”.
Quanti siano i bambini che A Roma insieme ha accompagnato fuori, a conoscere il mondo libero non l’hanno mai calcolato. “Centinaia sicuramente. Non ricordo tutti i loro nomi, ma i loro occhi increduli che si guardano attorno alla scoperta di una realtà sconosciuta mi sono sempre davanti”.
In questi anni il carcere è cambiato molto. “Per certi versi è migliorato: le strutture del reparto nido sono sicuramente migliori, anche l’attenzione verso le donne e i bambini è diversa. Quello che è andato peggiorando è la sua popolazione. La trasformazione del carcere in una discarica sociale si sente e si vede. C’è una grande miseria umana”.
Sono passati molti anni da quanto Leda Colombini ha varcato per la prima volta il portone blindato. E Molti da quando ha iniziato a frequentare sistematicamente le donne detenute e i loro figli. Ma ancora non si è stancata. Anzi. “Per niente al mondo rinuncerei ai sabato con i bambini e agli incontri con le donne. Per tutte c’è una speranza di cambiamento che va alimentata. E la richiesta di Amira di essere aiutata a non rientrare nel campo nomadi per uscire dal giro dell’illegalità è stato un segnale importante. Amira ce l’ha fatta e i suoi figli non sono costretti rubare come è successo a lei ”.
13 marzo 2009
www.innocentievasioni.net
“In realtà – racconta – i miei primi passi in carcere sono stati nel 1976 quando ero assessore agli enti locali e ai servizi sociali della Regione Lazio. Erano da poco state varate due riforme importanti, quella dell’ordinamento penitenziario e la legge sul decentramento amministrativo. Noi avevamo il compito di traghettare le competenze dalle Regioni agli enti locali nell’ambito dell’assistenza sanitaria, all’infanzia, agli anziani, all’handicap e a tutta l’area della marginalità, carcere compreso”
Per questo visitò tutte le prigioni del Lazio, incontrando la direzione, il personale e anche i detenuti e le detenute. E naturalmente i volontari presenti negli istituti, quasi esclusivamente di matrice cattolica.
Quell’anno Leda Colombini organizzò in Campidoglio in una sala gremita il primo incontro con le associazioni e gli enti convenzionati che operavano nell’ambito del sociale. “Mi ricordo che quando entrai, io assessore eletto nelle file del PCI, trovai una sala quasi completamente nera. Erano in stragrande maggioranza prete e suore. Erano loro che si occupavano del disagio sociale, che si trattasse di bambini, di anziani, di poveri o di carcerati. E noi abbiamo riconosciuto che il loro lavoro di assistenza aveva un valore sociale”. Il dialogo e il clima di apertura di quegli anni hanno fatto superare le reciproche diffidenze. “In quegli anni si respirava un clima diverso, c’era una gran voglia di cambiare il mondo, di migliorare le cose e questo ci ha aiutato molto”.
Di tutti quei mondi, quello che le è rimasto nel cuore è stato il carcere e soprattutto la realtà dei femminili. “Sono cresciuta con tre sorelle e una madre non sposata. E a quei tempi non era facile. Ho vissuto in prima persona l’ingiustizia e la discriminazione nei confronti delle donne e dei bambini. Forse è per questo che sono sempre molto attenta a questo aspetto”.
Con questa sensibilità, al Parlamento dove fu eletta nel 1983 promosse insieme a un gruppo trasversale di parlamentari donne la prima, e finora unica, indagine sulla detenzione femminile in Italia. “Il carico di dolore che è emerso era inimmaginabile. La spersonalizzazione, il senso di abbandono, la rottura violenta degli affetti, soprattutto con i figli, la modalità degli arresti erano i fattori che maggiormente determinavano in loro questa sofferenza per la quale ancora oggi non riesco a trovare le parole giuste capaci di descriverla”.
Poi con un’équipe dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, ha dato vita a un’altra indagine, questa volta sui bambini in carcere. La cosiddetta Gozzini aveva infatti consentito alle donne detenute di tenere con sé i figli sotto i tre anni di età. Un segnale di attenzione alla specificità della detenzione femminile, ma le cui conseguenze sui bambini non erano state ancora considerate.
Ma la svolta è arrivata con la costituzione dell’associazione A Roma insieme. “Quando siamo partiti il nostro obiettivo si poteva riassumere in mai più bambini in carcere. Poi, abbiamo cominciato la strategia dei piccoli passi per riuscire a cambiare una realtà troppo ingiusta. Da allora il reparto nido, che nel frattempo era nato, è cambiato molto diventando un luogo un po’ più adatto ai bambini, con la sala giochi, il giardino attrezzato per i più piccoli, i laboratori di arte-terapia e musico-terapia e molto altro ancora”.
Ma soprattutto A Roma insieme è riuscita a ottenere, dopo un lungo lavoro di preparazione, che si aprissero le porte dei nidi comunali esterni per i bambini detenuti. “Ci sono voluti anni di lavoro, ma poi ce l’abbiamo fatta. A settembre del 1994 sono usciti da Rebibbia femminile i primi cinque bambini. A prenderli c’era un pulmino attrezzato con a bordo un’operatrice del nido. Abbiamo dovuto superare resistenze interne ed esterne, ma la strada era aperta”. Da allora tutti i giorni, i piccoli escono dal carcere per andare all’asilo con i loro compagni “liberi”. “Siamo partiti con un progetto sperimentale che sarebbe dovuto durare un anno, ma poi è diventato permanente. Purtroppo finora però è l’unico in Italia”.
Prima di questa svolta, l’associazione aveva iniziato un altro “esperimento” che prevedeva l’uscita dei bambini per una giornata intera da trascorrere fuori, insieme ad altri bambini, in luoghi aperti. “Non potrò mai dimenticarmi gli occhi dei piccoli quando hanno visto per la prima volta il mare, gli animali della fattoria, la neve. Ricordo che una di loro, Edera, cercava di mettersi la neve in tasca per portarla a sua madre e ricordo anche Eugenia che dopo aver guardato a lungo la stanza di una delle volontarie che ospitava i bambini a casa sua ha detto “che bella cella che hai!””. Anche questa esperienza è diventata ormai una tradizione consolidata. “Dal 1994 tutti i sabato mattina portiamo fuori i bambini. Non siamo mai mancati, anche se capitava il 24 o il 25 dicembre.”
E poi c’era il trauma del distacco dei bambini al compimento dei tre anni. Qui in collaborazione stretta con l’ufficio sociale del Municipio e la direzione, A Roma insieme ha cercato di favorire la presa in affidamento dei piccoli presso una famiglia. “Da molti anni ormai non ci sono più bambini che finiscono negli istituti. Per loro si trova sempre una famiglia”. Grazie all’associazione la famiglia comincia a incontrare il bambino fuori, durante le gite del sabato. Poi va a trovare il bambino e la mamma dentro con i colloqui. “In questo modo si favorisce un passaggio graduale, evitando lo strappo dalla mamma, anche se il dolore della separazione rimane. Le famiglie però si impegnano a mantenere i rapporti con le madri per tutta a durata dell’affidamento e spesso anche con la fine della detenzione i contatti continuano”.
Quanti siano i bambini che A Roma insieme ha accompagnato fuori, a conoscere il mondo libero non l’hanno mai calcolato. “Centinaia sicuramente. Non ricordo tutti i loro nomi, ma i loro occhi increduli che si guardano attorno alla scoperta di una realtà sconosciuta mi sono sempre davanti”.
In questi anni il carcere è cambiato molto. “Per certi versi è migliorato: le strutture del reparto nido sono sicuramente migliori, anche l’attenzione verso le donne e i bambini è diversa. Quello che è andato peggiorando è la sua popolazione. La trasformazione del carcere in una discarica sociale si sente e si vede. C’è una grande miseria umana”.
Sono passati molti anni da quanto Leda Colombini ha varcato per la prima volta il portone blindato. E Molti da quando ha iniziato a frequentare sistematicamente le donne detenute e i loro figli. Ma ancora non si è stancata. Anzi. “Per niente al mondo rinuncerei ai sabato con i bambini e agli incontri con le donne. Per tutte c’è una speranza di cambiamento che va alimentata. E la richiesta di Amira di essere aiutata a non rientrare nel campo nomadi per uscire dal giro dell’illegalità è stato un segnale importante. Amira ce l’ha fatta e i suoi figli non sono costretti rubare come è successo a lei ”.
13 marzo 2009
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