Articolo 21 - ESTERI
L'Iran e la guerra hi-tech tra Cina e Usa
di Chen Xinxin
Huawei annuncia lo stop a nuovi contratti e progetti in Iran. Gli Stati Uniti plaudono alla mossa del colosso cinese delle telecomunicazioni. Tehran tace. Scelta autonoma, dicono da Huawei, ma nel gigante d’Asia non si muove foglia che il Partito-Stato non voglia. E’ la prima volta che un’azienda cinese – che da tempo lavora per una forte penetrazione nel mercato americano – decide di smarcarsi, seppur parzialmente, dall’Iran. Restano tutte da verificare le ripercussioni effettive della decisione dell’azienda che punta sull’Italia per le tecnologie wireless a microonde, con l’unico centro di ricerca fuori dai confini della madrepatria. E’ l’inizio della tregua, in terra iraniana, nella “guerra hi-tech” tra Cina e Usa?
Huawei, fornitore di dispositivi per le telecomunicazioni a livello mondiale secondo solo alla svedese Ericsson, «ridurrà in modo volontario i progetti di sviluppo (in Iran, ndr) senza cercare nuovi clienti e limitando le attività a quelli esistenti», si legge in un comunicato pubblicato sul sito web dell’azienda fondata nel 1987 a Shenzhen da Ren Zhengfei. Ren, particolare non trascurabile, è un ufficiale a riposo dell’Esercito popolare di liberazione. Huawei, che vanta accordi e contratti con i più importanti operatori europei (e non solo), motiva la decisione parlando «di una situazione sempre più complessa in Iran», dove fa affari con compagnie controllate dal governo.
La Repubblica Islamica è notoriamente sotto accusa per la repressione delle proteste in occasione delle elezioni presidenziali del 2009, che hanno riconfermato Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza, e per il controverso programma nucleare. Tehran, al culmine della crisi siriana, appare sempre più isolata, mentre lo scontro ai vertici – tra l’ultraconservatore Ahmadinejad e la Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei – si inasprisce di giorno in giorno.
Da un articolo di ottobre del Wall Street Journal emergeva come il colosso di Shenzhen avesse sfruttato il ritiro delle aziende occidentali dall’Iran, potenziando il proprio giro d’affari. Nell’articolo si parlava di un contratto siglato a inizio anno per forniture alla Mobile Communication Company of Iran di prodotti che potrebbero essere utilizzati per tracciare le conversazioni. L’azienda cinese, ovviamente, ha respinto ogni accusa. Tra Paesi tristemente noti per interventi dei censori, abilità nel controllo delle comunicazioni e violazioni dei diritti umani ci si intende.
Il mese scorso, ha scritto invece il Financial Times, Huawei ha vinto un appalto per la fornitura alla Mtn Irancell, secondo operatore di telefonia mobile della Repubblica Islamica, di una piattaforma per la distribuzione di news sui cellulari. Anche in questo caso l’azienda cinese ha negato di essere d’aiuto ai censori iraniani. Nel 2010 Huawei ha dichiarato un fatturato complessivo di circa 30 miliardi di dollari, ma non è facile quantificare il volume d’affari in Iran. In parte, sottolinea il Wsj, anche perché spesso avviene attraverso la Skycom Tech di Hong Kong. Ovviamente, di nuovo, nella nota in cui annuncia la riduzione delle attività in Iran, Huawei sottolinea che gli affari nella Repubblica Islamica sono sempre avvenuti nel «pieno rispetto di tutte le leggi e i regolamenti applicabili, compresi quelli di Nazioni Unite, Usa e Unione Europea».
Il colosso di Shenzhen strizza l’occhio all’Occidente. A febbraio Huawei ha pubblicamente dichiarato di voler sbarcare a pieno titolo nel mercato americano, senza più problemi. La notizia della riduzione delle attività in Iran, non a caso, è stata rilanciata ieri dal Global Times, giornale di riferimento per le notizie internazionali. Secondo fonti del Wsj, la scelta di rompere con la Repubblica Islamica è arrivata dopo un lungo dibattito interno a Huawei e “scambi di opinioni” con consulenti e legali americani.
Il Dipartimento di Stato americano ha subito accolto con favore l’annuncio di Huawei, invitando «tutte le aziende alla massima attenzione nel fare affari con l’Iran per essere certi che i contratti non rafforzino l’abilità del governo iraniano nella repressione». Mark Wallace, presidente di United Against Nuclear Iran ed ex ambasciatore americano all’Onu, ha sottolineato come per «la prima volta un’importante azienda cinese si ritiri dall’Iran alla luce del crescente sdegno internazionale per il brutale regime iraniano». United Against Nuclear Iran sembra aver avuto un ruolo nella decisione del colosso cinese.
Se nel quartier generale di Huawei ha prevalso la linea di chi considerava sempre più a rischio i potenziali grandi affari negli Usa e quelli già fruttuosi in Europa, a dispetto della tesi dei fautori del «business is business», è anche perché di recente gli Usa hanno bloccato l’ingresso del colosso cinese in alcuni progetti per timori legati alla «sicurezza nazionale». A settembre, ricorda il Ft, Washington ha impedito a Huawei di entrare nel piano di sviluppo di una rete wireless studiata per le forze dell’ordine e altri servizi d’emergenza. La paura è che lasciar penetrare Huawei – e con lei la Repubblica Popolare – nel mercato americano renda gli Usa vulnerabili ad attività di spionaggio, ad attacchi in stile guerra asimmetrica del XXI secolo.
A inizio mese Huawei – progetti in 140 Paesi con 120mila dipendenti nel mondo, 1.500 dei quali negli Stati Uniti e un migliaio in Iran – si è mossa per fare pressioni sugli Usa affinché non vengano intaccati i progetti di sviluppo dell’azienda, dopo essere stata esclusa (insieme alla Zte) da molti contratti pubblici. Il 4 dicembre il Global Times ha riferito di una missiva della dirigenza del colosso cinese in cui di fatto si ricorda a Washington come l’azienda dia lavoro a tanti americani. E’ stato solo l’ultimo passo della “guerra hi-tech” in atto tra Cina e Stati Uniti.
Il 17 novembre, infatti, il governo americano ha avviato un’indagine sulle aziende cinesi di dispositivi per le telecomunicazioni con l’obiettivo di verificare che la loro espansione negli Usa non faciliti attività di spionaggio. Pesa ancora, oltre tutto, il braccio di ferro di Pechino con Google in seguito alla crisi scoppiata a inizio 2010 quando venne sventato un attacco informatico ai danni del colosso di Mountain View. E al Congresso non dimenticano le accuse a Huawei di aver venduto dispositivi all’Iraq all’epoca di Saddam Hussein.
«Gli Usa hanno sempre controllato da vicino le esportazioni cinesi di tecnologia e lo fanno soprattutto ora che le tecnologie di Huawei hanno superato in molti aspetti quelle della concorrente americana Cisco System», ha commentato al Global Times He Manqing, direttrice e ricercatrice di uno dei centri dell’Istituto di ricerca del ministero del Commercio di Pechino. Huawei, in una fase di ridefinizione di target, è da sempre sospettata di essere uno dei tanti tentacoli del governo e dell’apparato militare cinese. Anche per il passato del suo fondatore. Proprio la Cisco System, non va dimenticato, è stata accusata di aver dato una mano ai cinesi nell’elaborazione delle tecniche di censura su Internet. Su Yahoo, invece, la bufera si è abbattuta dopo l’arresto di un dissidente cinese sulla base di informazioni ottenute dalle autorità di Pechino grazie al suo account email.
Storica sostenitrice del principio di non interferenza nelle questioni interne di altri Paesi, forte del potere di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina oppone da sempre resistenza a sanzioni contro l’Iran e invita costantemente a seguire la via del dialogo sul dossier nucleare. Tehran, che da tempo vede nella Repubblica Popolare una valida alternativa agli affari con l’Occidente, costituisce per Pechino il terzo fornitore di greggio e il quinto di minerale di ferro.
Se Huawei parla di decisione assunta in modo «volontario», se il colosso mira a penetrare nel mercato americano senza troppi problemi e se in Cina non si muove foglia che il Partito-Stato non voglia, allora la “tregua iraniana” – se tregua sarà – può essere letta guardando alla situazione interna del gigante d’Asia. Alla vigilia della delicata transizione del 2012, dal tandem Hu Jintao-Wen Jiabao alla Quinta generazione, la Cina – pragmatica e abile nei giochi di soft power – rimane affamata di materie prime, ma anche alla ricerca di sbocchi di mercato. Il futuro presidente Xi Jinping, in estate, ha già fatto gli onori di casa a Joe Biden.

Huawei, fornitore di dispositivi per le telecomunicazioni a livello mondiale secondo solo alla svedese Ericsson, «ridurrà in modo volontario i progetti di sviluppo (in Iran, ndr) senza cercare nuovi clienti e limitando le attività a quelli esistenti», si legge in un comunicato pubblicato sul sito web dell’azienda fondata nel 1987 a Shenzhen da Ren Zhengfei. Ren, particolare non trascurabile, è un ufficiale a riposo dell’Esercito popolare di liberazione. Huawei, che vanta accordi e contratti con i più importanti operatori europei (e non solo), motiva la decisione parlando «di una situazione sempre più complessa in Iran», dove fa affari con compagnie controllate dal governo.
La Repubblica Islamica è notoriamente sotto accusa per la repressione delle proteste in occasione delle elezioni presidenziali del 2009, che hanno riconfermato Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza, e per il controverso programma nucleare. Tehran, al culmine della crisi siriana, appare sempre più isolata, mentre lo scontro ai vertici – tra l’ultraconservatore Ahmadinejad e la Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei – si inasprisce di giorno in giorno.
Da un articolo di ottobre del Wall Street Journal emergeva come il colosso di Shenzhen avesse sfruttato il ritiro delle aziende occidentali dall’Iran, potenziando il proprio giro d’affari. Nell’articolo si parlava di un contratto siglato a inizio anno per forniture alla Mobile Communication Company of Iran di prodotti che potrebbero essere utilizzati per tracciare le conversazioni. L’azienda cinese, ovviamente, ha respinto ogni accusa. Tra Paesi tristemente noti per interventi dei censori, abilità nel controllo delle comunicazioni e violazioni dei diritti umani ci si intende.
Il mese scorso, ha scritto invece il Financial Times, Huawei ha vinto un appalto per la fornitura alla Mtn Irancell, secondo operatore di telefonia mobile della Repubblica Islamica, di una piattaforma per la distribuzione di news sui cellulari. Anche in questo caso l’azienda cinese ha negato di essere d’aiuto ai censori iraniani. Nel 2010 Huawei ha dichiarato un fatturato complessivo di circa 30 miliardi di dollari, ma non è facile quantificare il volume d’affari in Iran. In parte, sottolinea il Wsj, anche perché spesso avviene attraverso la Skycom Tech di Hong Kong. Ovviamente, di nuovo, nella nota in cui annuncia la riduzione delle attività in Iran, Huawei sottolinea che gli affari nella Repubblica Islamica sono sempre avvenuti nel «pieno rispetto di tutte le leggi e i regolamenti applicabili, compresi quelli di Nazioni Unite, Usa e Unione Europea».
Il colosso di Shenzhen strizza l’occhio all’Occidente. A febbraio Huawei ha pubblicamente dichiarato di voler sbarcare a pieno titolo nel mercato americano, senza più problemi. La notizia della riduzione delle attività in Iran, non a caso, è stata rilanciata ieri dal Global Times, giornale di riferimento per le notizie internazionali. Secondo fonti del Wsj, la scelta di rompere con la Repubblica Islamica è arrivata dopo un lungo dibattito interno a Huawei e “scambi di opinioni” con consulenti e legali americani.
Il Dipartimento di Stato americano ha subito accolto con favore l’annuncio di Huawei, invitando «tutte le aziende alla massima attenzione nel fare affari con l’Iran per essere certi che i contratti non rafforzino l’abilità del governo iraniano nella repressione». Mark Wallace, presidente di United Against Nuclear Iran ed ex ambasciatore americano all’Onu, ha sottolineato come per «la prima volta un’importante azienda cinese si ritiri dall’Iran alla luce del crescente sdegno internazionale per il brutale regime iraniano». United Against Nuclear Iran sembra aver avuto un ruolo nella decisione del colosso cinese.
Se nel quartier generale di Huawei ha prevalso la linea di chi considerava sempre più a rischio i potenziali grandi affari negli Usa e quelli già fruttuosi in Europa, a dispetto della tesi dei fautori del «business is business», è anche perché di recente gli Usa hanno bloccato l’ingresso del colosso cinese in alcuni progetti per timori legati alla «sicurezza nazionale». A settembre, ricorda il Ft, Washington ha impedito a Huawei di entrare nel piano di sviluppo di una rete wireless studiata per le forze dell’ordine e altri servizi d’emergenza. La paura è che lasciar penetrare Huawei – e con lei la Repubblica Popolare – nel mercato americano renda gli Usa vulnerabili ad attività di spionaggio, ad attacchi in stile guerra asimmetrica del XXI secolo.
A inizio mese Huawei – progetti in 140 Paesi con 120mila dipendenti nel mondo, 1.500 dei quali negli Stati Uniti e un migliaio in Iran – si è mossa per fare pressioni sugli Usa affinché non vengano intaccati i progetti di sviluppo dell’azienda, dopo essere stata esclusa (insieme alla Zte) da molti contratti pubblici. Il 4 dicembre il Global Times ha riferito di una missiva della dirigenza del colosso cinese in cui di fatto si ricorda a Washington come l’azienda dia lavoro a tanti americani. E’ stato solo l’ultimo passo della “guerra hi-tech” in atto tra Cina e Stati Uniti.
Il 17 novembre, infatti, il governo americano ha avviato un’indagine sulle aziende cinesi di dispositivi per le telecomunicazioni con l’obiettivo di verificare che la loro espansione negli Usa non faciliti attività di spionaggio. Pesa ancora, oltre tutto, il braccio di ferro di Pechino con Google in seguito alla crisi scoppiata a inizio 2010 quando venne sventato un attacco informatico ai danni del colosso di Mountain View. E al Congresso non dimenticano le accuse a Huawei di aver venduto dispositivi all’Iraq all’epoca di Saddam Hussein.
«Gli Usa hanno sempre controllato da vicino le esportazioni cinesi di tecnologia e lo fanno soprattutto ora che le tecnologie di Huawei hanno superato in molti aspetti quelle della concorrente americana Cisco System», ha commentato al Global Times He Manqing, direttrice e ricercatrice di uno dei centri dell’Istituto di ricerca del ministero del Commercio di Pechino. Huawei, in una fase di ridefinizione di target, è da sempre sospettata di essere uno dei tanti tentacoli del governo e dell’apparato militare cinese. Anche per il passato del suo fondatore. Proprio la Cisco System, non va dimenticato, è stata accusata di aver dato una mano ai cinesi nell’elaborazione delle tecniche di censura su Internet. Su Yahoo, invece, la bufera si è abbattuta dopo l’arresto di un dissidente cinese sulla base di informazioni ottenute dalle autorità di Pechino grazie al suo account email.
Storica sostenitrice del principio di non interferenza nelle questioni interne di altri Paesi, forte del potere di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina oppone da sempre resistenza a sanzioni contro l’Iran e invita costantemente a seguire la via del dialogo sul dossier nucleare. Tehran, che da tempo vede nella Repubblica Popolare una valida alternativa agli affari con l’Occidente, costituisce per Pechino il terzo fornitore di greggio e il quinto di minerale di ferro.
Se Huawei parla di decisione assunta in modo «volontario», se il colosso mira a penetrare nel mercato americano senza troppi problemi e se in Cina non si muove foglia che il Partito-Stato non voglia, allora la “tregua iraniana” – se tregua sarà – può essere letta guardando alla situazione interna del gigante d’Asia. Alla vigilia della delicata transizione del 2012, dal tandem Hu Jintao-Wen Jiabao alla Quinta generazione, la Cina – pragmatica e abile nei giochi di soft power – rimane affamata di materie prime, ma anche alla ricerca di sbocchi di mercato. Il futuro presidente Xi Jinping, in estate, ha già fatto gli onori di casa a Joe Biden.

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