di Ermanno Anselmi*
Se fosse stata una lavoratrice dipendente, la legge 416 del 1981, potrebbe andare in pensione anche dopo la manovra del Governo Monti; invece è sempre li che resiste al tempo, alle rivoluzioni tecnologiche, alla rivoluzione dei tempi. Sono sicuro che lei, la legge, avrebbe preferito andare in pensione già da tempo, ma i suoi “datori di lavoro” hanno sempre trovato il modo di convincerla a restare, puntando sul suo grande senso di responsabilità e la sua competenza.
Rappresenta, nello stesso tempo l’antico ed il moderno un po’ come i monumenti storici, di fronte ai quali, spesso, si coglie la profondità del lavoro svolto e la lungimiranza dell’impresa compiuta.
Oggi, 40 anni dopo la sua approvazione, parlando dell’unico testo unico della legge dell’editoria che ha saputo rappresentare tutto il mondo della comunicazione su carta stampata, possiamo dire che è l’unica legge del settore che ha saputo dare un ruolo preciso ad ogni attore della filiera della carta in generale come l’editore, i giornalisti, i poligrafici, le imprese di distribuzione dei quotidiani e periodici, i rivenditori. Questa è la riflessione che suscita questa legge.
Dal 1981 il Parlamento non è stato in grado di riprendere quella filosofia e, rifacendosi sempre all’articolo 21 della Costituzione, costruire una “famiglia allargata della 416” estendendo criteri e principi di salvaguardia al pluralismo ed al lavoro di tutti gli operatori coinvolti nella tv pubblica, e commerciale, che stava nascendo, e poi nel tempo internet ecc.
Così oggi, nell’era della comunicazione globale e di una presunta libertà di informare senza vincoli,
si vede nella liberalizzazioni dei settori una sorta di passaggio a nord ovest.
Premettendo che, per me, le liberalizzazioni sono indice di civiltà e progresso, e non sono di per sé un male da combattere, occorre far presente che, purtroppo troppe volte si sono rilevate come un aspetto solo di facciata, trasformandosi quasi sempre in privatizzazioni fatte dai soliti noti.
Si vogliono liberalizzare gli ordini professionali, tutte le attività commerciali, e gli esercizi commerciali comprese le edicole.
Questa sottolineatura è d’obbligo, poiché dovrebbe essere difficile, per un addetto ai lavori, e per meglio definire la categoria degli addetti ai lavori ritorno alla legge dell’1981 (così sapete di chi parlo), comprendere che, dopo le aperture del mercato del prodotto editoriale, fatte a seguito della 170/ 2001, si voglia ancora far provare a vendere i giornali ad altri negozianti. Bar, tabacchi, supermercati, librerie, benzinai, e non meglio definiti negozi specializzati, possono vendere dal 2001 quotidiani e riviste.
Dall’entrata in vigore della legge 170 ad oggi, la rete di vendita ha perso 10000 rivendite, e le copie dei quotidiani vendute sono passate da 7 milioni del 2000 a poco più di 4 milioni nel 2010 stessa sorte per i periodici; mentre il prezzo medio di copertina dei prodotti (sui quali le rivendite hanno un aggio del 18,70 %) è passato da 1,80 € nel 2002 a 0,80€ nel 2010.
Se c’è una cosa che è tabù nel mondo della informazione della carta stampata, è la distribuzione e vendita del prodotto. Praticamente editori e giornalisti, negli ultimi dieci anni, difficilmente si preoccupavano se il prodotto incontrava il favore del mercato o, nel nostro caso, il “gusto” dei lettori. Una volta confezionato il giornale, difficilmente si informavano sulle vendite, bastava che fosse arrivato nelle edicole ed il resto veniva da sé. Forse garantiti dalle risorse della pubblicità e da un obbligo a monte del sistema, che impone alle agenzie di distribuzione di recapitarlo ai rivenditori ed, alle edicole, di metterlo in vendita pagando in anticipo la fornitura. Pratica che assicura così un ciclo finanziario che, da valle va a monte, e permette ai gradi più alti della filiera, di avere comunque liquidità ed interessarsi poco del proprio prodotto.
Questa, sostanzialmente, è un aspetto sottolineato nella conclusione dell’ultima indagine Antitrust sul mercato del prodotto editoriale che a più riprese ha chiesto un intervento legislativo per riequilibrare il sistema pena l’implosione dello stesso.
Oggi, tempo di crisi profonda dell’editoria, la soluzione sembra essere un’altra liberalizzazione e un’indefinita informatizzazione della rete di vendita. Non un progetto di riforma di legge complessiva che ridisegni confini tra il prodotto veramente editoriale, e quello che sfrutta i vantaggi di un Iva agevolata per vendere giocattoli o affini. Non un progetto per salvaguardare una rete dedicata alla stampa, nessuna idea innovativa sul prodotto, mancanza di coraggio di adeguare i prezzi di un prodotto di qualità come tantissime testate giornalistiche. Ormai i lettori sono convinti che l’informazione deve essere gratuita perché…”se costa troppo vado su internet e leggo gratis”. Difficilmente pensano che la qualità ha un prezzo alto, e non è speculazione. Fanno confusione tra contributi destinati all’editoria, e prezzo della “casta”, misurano il pluralismo con la capacità di diffusione di un prodotto, contestano la presenza della pubblicità nelle riviste e se ne trovano una senza, non la comprano perché piatta, noiosa e così via.
Vi ricordate quando qualcuno diceva che era inutile pagare il canone per una tv sostanzialmente noiosa, grigia, ammuffita, coma la Rai quando si poteva vedere una tv bella, scintillante e commerciale? Per certi versi sta accadendo la stessa cosa nella commercializzazione del prodotto editoriale.
Sono sicuro che una difesa a spada tratta del sistema della distribuzione della carta stampata così come è stato disegnato ai tempi della 416, sia sbagliato per i limiti che la buona vecchia legge presenta alla luce dei nostri tempi. Così come sono convinto che gli editori dovranno prima o poi confrontarsi con il mercato, aiutati, questo si, dallo Stato nella ristrutturazione o nelle start up. Penso anche che si debba ripensare ad una nuova definizione del prodotto quotidiano e periodico che privilegi l’aspetto informativo, ed un canale di vendita per la stampa dedicato, che garantisca pluralismo per le testate giornalistiche e che non si indebiti per garantirle.
Occorrerebbe mandare in pensione la 416 rassicurandola che la sua eredità pesante è stata raccolta e trasformata in un’ ambizione positiva, mantenendo saldi i principi ispiratori.
Non ripetiamo l’errore di inseguire modelli ispirati alla modernità senza riflettere sui nuovi orizzonti del mondo della comunicazione, considerando la carta, un media vicino al de profundis, piuttosto di una risorsa come è la radio, nata 40 anni prima della tv, oggi ancora più viva nell’era di internet.
* Fenagi Confesercenti