di Paolo Cacciari
Ci mancava “Crescitalia”, il nuovo slogan coniato dal professor Monti per la “fase due” del suo governo. Forse persino un nuovo brand destinato a prendere il posto nel mercato della politica di quello consunto di Forza Italia. Ma crescita di che? Ovviamente del “denominatore” - come familiarmente viene chiamato il Pil da chi si intende di economia debitoria. Visto che il “numeratore”, cioè il deficit pubblico annuale (che forma il montante dello stock del “debito sovrano”), nessuno crede che possa realisticamente scendere (solo per interessi lo stato italiano ha pagato lo scorso anno 75 miliardi, mille se va bene il prossimo), è indispensabile credere e far credere che sia possibile accrescere il volume monetario delle merci e dei servizi comprati e venduti in Italia. Non importa sapere quali siano queste merci, di cosa siano fatte e come siano state fabbricate, chi ne faccia uso e per soddisfare quali necessità. L’importante è che aumentino. In cima alle preoccupazioni dei tecnocrati che governano l’economia (quindi, come sempre, anche la politica, che ne è la fidata ancella) c’è il miraggio del “pareggio di bilancio”. Che venga raggiunto producendo cacciabombardieri o grano biologico non fa differenza. La moneta, si sa, è uno strumento tecnico neutro, indifferente all’uso che ne viene fatto. Ai banchieri interessa solo che ne giri di più. Sempre di più. I banchieri non sono né preti, né filosofi: non spetta a loro indicare alla gente che uso fare dei soldi. Essi sono solo i chierici del magico rito dell’autoaccrescimento del denaro: ne comprano l’uso dai risparmiatori ad un prezzo basso (tassi di interesse) e lo rivendono agli “investitori” (imprenditori, speculatori, enti pubblici… a loro fa lo stesso) ad uno più alto. Punto. Sono il lubrificante del motore dell’economia. Dove ci porti, non gli interessa. Anche i politici amano definirsi “laici” (oltre che moderni e democratici) e non vogliono interferire sulle libere preferenze espresse dai cittadini in veste di consumatori: l’importante è che spendano il più possibile, che lavorino di più per procurarsi il denaro necessario, che diano fondo ai loro risparmi, che si indebitino. Il “consumatore imperfetto” è il cittadino peggiore, colui che fa andare a rotoli l’economia e che mette a rischio la coesione e anche l’unità del Paese. Ma in questo ragionamento - che ci martella come un mantra dalla mattina alla sera, ogni santo giorno - ci sono varie incongruenze. Ne indico cinque.
1) Per comprare e vendere di più serve produrre di più. In un’economia globalizzata e liberalizzata la concorrenza tra imprese e aree economiche è selvaggia. Vince chi fa prezzi più bassi. Uno sterminato esercito di riserva (mobilitato da capitali occidentali tramite joint venture e delocalizzazioni ed organizzato da governi non sempre propriamente democratici) preme sui cancelli delle officine del mondo in Asia, Sud America, ma anche in Turchia, Nigeria, Sud Africa ecc. I differenziali salariali con i paesi di più vecchia industrializzazione è incolmabile, almeno da qui a dieci, vent’anni.
2) Ma sappiamo che il costo del lavoro è solo una parte (la più piccola nei prodotti più evoluti) del costo delle merci. Un modo per vincere la concorrenza sul versante della produttività sarebbe quindi quello di posizionare il sistema delle imprese italiane nella parte alta della divisione internazionale del lavoro, ovvero inventare prodotti e sistemi produttivi, materiali e applicazioni tecnologiche sempre nuovi. Facile a dirsi ma sarebbero necessari enormi investimenti in ricerca, proibitivi per le piccole e medie imprese ed anche per stati periferici come il nostro. La capacità di produrre ed applicare brevetti è concentrata in poche decine compagnie hi-tech e bio-tec statunitensi, tedesche, giapponesi. Ci stanno brevettando anche il broccolo!
3) Comunque, anche lì dove cresce l’innovazione (vedi gli Stati Uniti) scendono i salari e l’occupazione. La quota del reddito nazionale che negli SU va al lavoro (secondo il Financial Times) è stata lo scorso anno la più bassa dal dopoguerra (58%) rispetto alla quota andata ai profitti (37%), massimo storico. Non mancano al lavoro solo i denari sottratti dall’avidità dei ricchi e dalla criminalità finanziaria. É proprio la tecnologia ad essere finalizzata a “risparmiare” lavoro.
4) Ma all’Italia non basterebbe nemmeno produrre di più. Per un paese che importa materie prime e semilavorati, per un sistema industriale che trasforma e assembla, bisognerebbe guardare con più attenzione alla bilancia commerciale dei conti con l’estero (549 miliardi di posizione debitoria lo scorso anno): se il prezzo di ciò che importiamo è troppo alto rispetto al valore che l’attività lavorativa nazionale riesce ad aggiungere, c’è il rischio che il gioco non valga la candela. Se per alimentare le nostre imprese adoperiamo troppo petrolio, ferro, rame, fosfati, soia… rischiamo di dover “uscire dai mercati d’esportazione”.
5) Un trucco per fare “più fatturato” c’è: il dumping ambientale. Produrre male, “risparmiare” sui costi di smaltimento dei residui tossici, infischiarsene delle polveri sottili inalabili che appestano la Pianura padana, costruire sull’alveo dei fiumi… continuare a fare, insomma, ciò che l’Italia già fa.
Come si vede, insistere nell’obiettivo della crescita economica (cioè del Pil) in questi contesti è voler perseverare in una direzione ingannevole, perversa socialmente ed ambientalmente catastrofica. La vera sfida, la vera risposta alla crisi della crescita sarebbe quella di fare a meno della crescita: realizzare il benessere economico senza dover sottostare alle logiche incrementali imposte dal mercato finanziario attraverso il debito. Il debito asservisce, costringe l’economia a produrre sempre di più per pagare gli interessi a prescindere da qualsiasi considerazione di merito sull’utilità e sulla qualità effettiva dei prodotti immessi nel mercato. Liberarci dalla morsa dell’economia debitoria è quindi una precondizione per uscire dalla crisi. Riformare alla radice il sistema finanziario e monetario partendo dal semplice principio etico che è immorale fare soldi con i soldi.
Poi è necessario riconvertire le basi produttive economiche orientandole non alla competizione globale, ma ai bisogni genuini delle popolazioni. Fare quel che serve con ciò che si ha a disposizione. A questo scopo dovrebbe servire l’ingegno e la scienza. La prima necessità che hanno le comunità in ogni parte del mondo è offrire un lavoro degno a tutte e a tutti. La priorità dell’azione di politica economica di ogni autentica democrazia dovrebbe essere creare opportunità di lavoro. Per contro, il primo, scandaloso spreco su cui i decisori politici dovrebbero impegnarsi è quello di milioni di giovani inoperosi a fronte di necessità sociali di tutti i tipi: cura delle persone, preservazione del territorio, recupero immobiliare e del patrimonio culturale.
Se il mercato non sa riconoscere queste necessità e questi valori, allora è giunto il momento di fare a meno del mercato.