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Paul Ginsborg: il governo dei tecnici non ama l'uguaglianza
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di Donatella Coccoli*

Paul Ginsborg: il governo dei tecnici non ama l'uguaglianza

Profondo conoscitore della storia del nostro Paese, negli ultimi saggi scritti per Einaudi, lo storico Paul Ginsborg ha offerto un’analisi impietosa e allo stesso tempo partecipata della crisi che l’Italia vive in modo lacerante in questo primo decennio di secolo. In La democrazia che non c’è (2006) e in Salviamo l’Italia (2010), Ginsborg ha messo a nudo sia la deriva berlusconiana che i mali antichi dello Stato, tra cui, citiamo: lo strapotere della Chiesa, il clientelismo e la povertà delle sinistre.

Nell’ultimo libro, in particolare, lo studioso britannico, che dal 2009 è anche cittadino italiano, ha elencato i quattro nodi da risolvere. Salvare l’Italia per Ginsborg significa riuscire a realizzare: l’autogoverno inteso come presa di coscienza (e coinvolgimento dei cittadini nelle scelte amministrative); un europeismo che non sia passivo; l’eguaglianza come solida base per costruire società migliori; infine la mitezza coniugata con la fermezza, per dare nuovo fondamento alla politica.

Professor Ginsborg nel suo libro Salviamo l’Italia fa il parallelismo tra la crisi attuale e quella di inizio Ottocento. Negli ultimi capitoli si chiede chi potrebbero essere i salvatori: il presidente del Consiglio Monti è il nuovo Cavour?

Possono esserci somiglianze per quanto riguarda la difficoltà del momento. Monti – e non solo lui – deve darsi da fare per far sopravvivere l’Europa, Cavour doveva lavorare per creare l’Italia. Certamente Monti possiede molti elementi propri di una Destra storica, di una destra che almeno aspirava – anche se spesso non era così nella realtà – a dare all’Italia delle regole, a creare una burocrazia efficiente. Forse Cavour era più potente: dopo aver convinto Napoleone III, aveva una forte libertà di manovra, cosa che temo verrà negata a Monti. Lui dipende dal voto del Parlamento, ed è giusto che sia così, ma un’alleanza formata da Pdl, Pd e Casini non può durare a lungo.

Come valuta il piano “Salva Italia”, comprese le liberalizzazioni?

Certo, il sollievo che abbiamo sentito tutti con la caduta di Berlusconi continua tuttora nel vedere vari ministri al lavoro in modo serio. Detto questo, però, ho molte critiche sull’operato del governo Monti. Se torniamo al mio libro, nei quattro punti chiave metto il tema dell’eguaglianza. Ecco, da questo punto di vista, ci sono pochissimi segnali. Quasi si potrebbe dire che parlare dell’equità come hanno fatto era solo un’arma retorica, perché in realtà non si vede questa forte spinta che pure avevano promesso. Anche la scelta di fare la battaglia sulle liberalizzazioni subito, e non nella seconda parte del governo, non mi sembra che abbia a che fare con l’equità sociale. L’Italia è diventata, molto più che ai tempi di Cavour, un Paese dalle grandissime disuguaglianze. Temo che una scelta più ideologica che politica – come quella di fare subito le liberalizzazioni – non solo è pericolosa perché tocca l’elettorato del Pdl, ma poi non aiuta affatto a superare le disuguaglianze.

Un altro nodo da sciogliere è quello dell’autogoverno e quindi della mancanza di partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Basterà la riforma della legge elettorale a riavvicinare i partiti alla società?

Non è solo una questione di legge elettorale. Nell’ultimo sondaggio Demos di Ilvo Diamanti la fiducia nei partiti è scesa a meno del 4 per cento, la metà rispetto all’anno scorso quando era attorno al 7 per cento. Questo significa che bisogna parlare almeno a 25 cittadini italiani prima di trovarne uno che abbia fiducia nei partiti, mai così screditati. Non si tratta quindi solo di fare un aggiustamento ma occorre una profonda riflessione su ciò che è andato storto. I partiti perdono tesserati, l’unica cosa che non perdono è il potere e questo è molto grave per la democrazia italiana. Comunque ci sono segnali contrastanti: per esempio, mi ha colpito che de Magistris sia uscito, nel sondaggio del Sole 24 ore sui sindaci, al primo posto con un voto altissimo, il 70 per cento. Le elezioni amministrative a Cagliari, a Milano e a Napoli, dove c’è una forte sottolineatura da parte dell’assessoreai beni comuni e alla partecipazione Alberto Lucarelli per un tipo di politica diversa, offrono una visione alternativa. Emerge una politica non legata ai vecchi partiti, né al verticismo che caratterizza il Pd, l’Italia dei valori e anche Nichi Vendola. Adesso c’è una grande richiesta di nuove forme di partecipazione, di democrazia e di coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali. Questo è un grande tema, non solo in Italia. Cosa dice il governo Monti rispetto a questo problema? Mi pare sia distante anni luce da qualsiasi devoluzione del potere per un maggior coinvolgimento dei cittadini. I ministri di Monti sono tecnici che governano, non vengono da una cultura di partecipazione. Loro sono lì per prendere le decisioni, ma le decisioni senza il coinvolgimento dei cittadini spesso si sono rivelate decisioni sbagliate. In questo, vedo una grande povertà culturale; non c’è la sensibilità verso i temi della democrazia. La loro è una cultura che viene dall’alto.

Un governo di tecnici potrà debellare il clientelismo che favorisce la piaga della corruzione?

Per affrontare un problema sistemico, secolare, come il clientelismo non ci vuole un esecutivo di tecnici, ci vuole un governo che ha stravinto le elezioni e che ha il mandato dall’elettorato di promuovere la trasparenza, la fine della corruzione, la guerra contro il clientelismo, il familismo. Non so se mai arriveremo a un governo di questo tipo, forse è più possibile a livello locale. Questi sono problemi culturali che si potrebbero risolvere con degli esempi, con un discorso esplicito. Invece tutto questo è sempre stato messo sotto il tappeto: né la sinistra né la destra parlano di clientelismo e familismo; non dimentichiamo Bossi e suo figlio, Di Pietro e suo figlio… Insomma, si tratta di modi di agire deleteriche mi sembrano quasi dati per scontati da tutta la classe politica.

Lei scrive che la presenza della Chiesa ha impedito lo sviluppo dell’Italia e favorisce lo stesso clientelismo. Vede un cambiamento di atteggiamento da parte del governo Monti?

I tecnici finora non hanno toccato i temi cari alla Chiesa anche perché c’è una buona presenza di cattolici dentro il governo. Dal punto di vista storico, la tragedia è stata la non continuazione della politica di Papa Giovanni XXIII, sostanzialmente lo svuotamento del Concilio Vaticano II. Il punto di svolta avviene negli anni Sessanta. Lì la Chiesa perde quella tensione riformatrice che l’aveva contraddistinta per almeno 10 anni con un tentativo di aprirsi alla società. Ora si è chiusa in un tradizionalismo fortissimo.

L’Italia diventerà mai un Paese laico?


È interessante vedere cosa è riuscito a fare Zapatero in Spagna. Lì non si scherza: c’è una Chiesa tradizionalista e molto radicata, agguerrita; eppure lui è riuscito a convincere alle riforme la maggioranza della popolazione. Quel coraggio manca assolutamente nel nostro centrosinistra; un Veltroni o un Bersani una cosa del genere non la faranno mai. I leader italiani sembrano più succubi della classe politica spagnola. Ma questo ci riporta al loro 4 per cento: pensano di acchiappare consenso e invece forse la gente li disprezza per questo atteggiamento codino.

Cosa accadrà alle sinistre nell’“interregno” di Monti?

Adesso occorre affrontare l’emergenza attuale e le elezioni incombenti. Non possiamo permetterci di perderle. Monti non può governare per altri dieci anni. La politica di sinistra deve prendersi le proprie responsabilità, mettersi insieme e vincere. Questa è l’unica cosa realistica da fare, sarebbe disastroso se il Pd andasse con Casini e lasciasse fuori Sel e Idv: così non vince nessuno, salvo la destra. E devono presentarsi per governare bene, non male, come hanno fatto in passato con Mastella ministro della Giustizia, tanto per fare un esempio. Purtroppo non vedo ancora nella sinistra questa voglia di vincere; vedo tatticismo, mancanza di appello corale al Paese del tipo: «Siamo per le donne e il loro lavoro, per l’uguaglianza sociale, per i beni comuni, per la vera partecipazione dei cittadini al processo decisionale». Questi sono temi molto sentiti nel Paese. Dietro questa emergenza attuale – perché manca solo un anno alle elezioni – c’è il problema di cambiare la cultura della sinistra che, non solo in Italia ma anche in tutta l’Europa dal 1989 in poi, non ha creato un granché. L’Italia però dalla sua ha una forte tradizione storica di innovazione teorica e anche organizzativa; adesso bisogna ritrovare quelle posizioni di avanguardia, di riflessione teorica, di sperimentazione, per vincere con candidati che rompono gli schemi. Penso che prima o poi verrà fuori, con un ritardo di almeno dieci anni, un progetto radicale per un nuovo soggetto politico.
*tratto da Left


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