di Massimo Cerulo*
Tre mosse per ritornare mattatore. Per riprendersi quel palcoscenico pubblico emozionale che per qualcuno sembrava non gli appartenesse più. Per far capire a Romney o chi per lui con chi se la dovranno vedere da qui a novembre. Barack l'affabulatore è tornato, con una carica di grinta e di autenticità in più. Con buona pace di chi lo dava per dormiente o, peggio, abbattuto dalla dura (!) vita di Presidente di quello che (ancora) risulta il paese più potente del mondo. Ma andiamo per ordine di mosse.
Prima: nel corso di un discorso all'Apollo Theater di New York per raccolta fondi, Obama rompe la monotonia dello speech intonando la prima strofa di "Let's stay togheter" di Al Green, che lo aveva preceduto su quel palco. E non una semplice messa in scena. Inizia a intonarla, si ferma, ricomincia, canta tutta la prima strofa sorridendo, con pathos ma con gli occhi bassi, come se stesse straripando dal copione previsto. Andando oltre la scaletta prestabilita. E il pubblico - come quasi sempre accade quando si tratta di un personaggio famoso che compie, in pubblico, gesti consueti per la maggior parte della gente comune - apprezza e applaude (e Al Green ringrazia, visto che nel giro di una settimana il suo pezzo del '72 ritorna tra le canzoni più richieste negli Stati uniti).
Seconda mossa: nel corso di un incontro nello stato dell'Arizona, Obama ha un duro faccia a faccia con la governatrice di quello stato, la repubblicana Jan Brewer, colpevole di aver varato una severissima legge anti-immigrazione (oltre che di aver "maltrattato" il Presidente in un suo libro). Obama, appena sceso dalla scaletta dell'Air Force One, affronta la questione di petto, sulla pista di atterraggio dell'aeroporto di Phoenix: i due si appartano e, dopo un ravvicinatissimo e caldo scambio di battute a quattr'occhi in cui la Brewer punta il dito in faccia al Presidente (scena immortalata dalle onnipresenti telecamere), Obama la pianta lì, in asso, e lei che non ci crede che stia davvero succedendo, e lui che è già lontano perché va bene la diplomazia ma fino a un certo punto.
Terza mossa: e qui entra in scena la first lady, quella Michelle che, ospite del salotto di Ellen DeGeneres (uno dei talk show più seguiti degli Stati Uniti), dopo aver mostrato un'invidiabile preparazione fisica attraverso la pratica di una serie notevole di flessioni, racconta con nonchalance le abitudini domestiche del marito. Afferma che è disordinato, lascia i calzini in giro: per la precisione, li appende alle maniglie delle porte. In altri termini, Michelle si comporta (in diretta nazionale), come la stragrande maggioranza delle donne del mondo occidentale che, nel corso di conversazioni femminili, raccontano vizi e virtù dei loro partner, amanti, fidanzati, mariti.
Tali sopracitati comportamenti, in apparenza buoni per rimpolpare giornali di gossip e conversazioni pettegole, svolgono anche un’altra latente funzione. Le mosse attuate da Barack rientrano in quelle tattiche emozionali di micropolitica di cui i sociologi statunitensi, Candace Clark in primis, ci hanno svelato caratteristiche e particolarità (d'altronde, è compito dei sociologi distruggere le illusioni). Lasciarsi andare ad azioni ordinarie (canticchiare il motivetto della canzone appena ascoltata), dire in faccia quello che si pensa a un avversario, senza timori reverenziali (il "dialogo" all'aeroporto), rendere pubblici comportamenti che di solito si ritengono sconosciuti e sideralmente distanti dai signori del mondo (il racconto televisivo di Michelle) non fanno altro che avvicinare il politico al cittadino. Mostrarlo come uomo comune, con abitudini, vizi e difetti simili a quelli dell'intera umanità. E tali regole sono ben conosciuti dagli spin doctors di oltre oceano (non a caso, forse in un fuori programma questo sì reale, alla fine della performance canora Barack dice rivolto verso le quinte: "Lo avevo detto ai ragazzi là dietro che lo avrei fatto...").
Se mostrate di provare emozioni positive in un discorso pubblico (rieccola, la Clark), state certi che la maggior parte dell'uditorio entrerà in empatia con voi. E tale empatia si creerà anche nel caso in cui si raccontino vizi privati in pubblico, poiché allo stupore iniziale seguirà la comprensione degli uditori-spettatori dovuta alla consapevolezza che nessuno di questi ultimi, di solito, può arrogarsi il diritto di lanciare la prima pietra. Esempi del genere rientrano non di meno in quella "politica terapeutica" che vede il soggetto detenente potere condividere in pubblico vizi privati e chiedere aiuto al pubblico (in questo caso a un'intera nazione), perché l'unica sua colpa è quella di essere un uomo. Nient'altro che un uomo (non a caso, nei commenti presenti su youtube ai video di Michelle che racconta il marito nel talk show, il verbo che ricorre più spesso è "umanizzare").
Bill "Bubba" Clinton - l'inarrivabile maestro di tale politica terapeutica - stupiì il mondo quando, nel caso Lewinski affermò che sì, era colpevole, perché era umano e tutti gli americani non avrebbero potuto che comprenderlo e lui si sarebbe sentito meglio soltanto se con loro avesse condiviso i suoi problemi (I feel good about...). Se Barack eguaglierà Bill nel secondo mandato presidenziale, saranno i prossimi mesi a dircelo. Di sicuro, si è già assurto al ruolo di studente prediletto. Guarda caso, la prima strofa della canzone di Al Green cantata da Obama fa: "Oh, I'm so in love with you...".
* Sociologo, Università della Calabria (cerulo@unical.it)