di Luigi Manconi e Valentina Calderone*
Nonostante il gran parlare di “decreto svuota carceri” e nonostante ad alcuni sembrasse un indulto mascherato, i fatti dimostrano quanto questo sia lontano dalla realtà. La strumentalizzazione operata nei confronti del provvedimento è segno di quanto poco si rifletta sugli effetti reali di esso e sulle condizioni cui si applica: il tragico stato in cui versano i nostri penitenziari. E quanto poco si rifletta sulle soluzioni per rendere questi luoghi, e il tempo della pena, meno indecenti e degradanti. Le misure adottate con quel decreto sono modeste, ma mirano a intervenire su due particolari situazioni. La prima riguarda il fenomeno delle cosiddette porte girevoli.
Nel 2011 oltre 21.000 persone sono entrate in carcere (con la conseguente messa in moto della macchina penitenziaria: l’ufficio matricola, la visita medica, il posto letto nella sezione nuovi giunti) per uscirne dopo due tre, quattro giorni. È evidente come questo spreco di tempo e di risorse sia del tutto inutile e il decreto approvato interviene prevedendo che per gli arrestati in flagranza sia disposta in via prioritaria la custodia presso l’abitazione, in subordine nelle camere di sicurezza e solo non sia possibile altrimenti in carcere. Questo in attesa della convalida dell’arresto da parte del giudice che deve avvenire entro due giorni e non più entro le 96 ore prima previste. La seconda disposizione del decreto prevede la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi di pena in detenzione domiciliare anziché in carcere. È stato stimato che i beneficiari del provvedimento potrebbero essere circa 3.300, un numero irrisorio rispetto alle 67.000 presenza nei nostri penitenziari a fronte di una capienza regolamentare di 44.000 posti.
Da decreto, comunque, la concessione dei domiciliari non avverrà automaticamente, bensì sarà sempre il magistrato a valutare ogni singolo caso e decidere per l’uscita o meno dal carcere. Dopo la demonizzazione del provvedimento di indulto del 2006, lo stesso sta accadendo nei confronti del decreto appena approvato. E questo senza che i suoi oppositori, evidentemente, abbiano preso visione di almeno due dati fondamentali. Il primo riguarda proprio quel provvedimento di indulto, così osteggiato e “diffamato”, che ha fatto registrare tra i suoi beneficiari una recidiva del 34 per centro contro il 68 per cento di chi, invece, sconta la pena interamente in carcere. Certo, quel 34 per cento è comunque molto alto, ma non si può non notare l’enorme divario tra le due percentuali. Il secondo dato riguarda la commissione di reati a opera di chi sconta la pena in detenzione domiciliare. Nel 2011 si trovavano in quella condizione 20.314 persone e tra loro, solo lo 0,81 per cento ha commesso un nuovo reato. Questi numeri dovrebbero far riflettere, soprattutto alla luce delle tragedie che, con frequenza inquietante, avvengono negli istituti di pena. L’ultimo suicidio in ordine di tempo, e l’undicesimo da inizio anno, è avvenuto nel carcere di Foggia. Ottavio Mastrochirico, 36 anni, si è tolto la vita impiccandosi con il cordoncino della sua tuta. Il penitenziario di Foggia, come la maggior parte delle carceri italiane, soffre di una grave carenza di personale e ancora più di un sovraffollamento ormai insostenibile: a Foggia, in 370 posti disponibili, si arriva a stipare anche 800 detenuti. La questione dei suicidi in carcere ha raggiunto ormai dimensioni preoccupanti. Negli ultimi dieci anni si sono tolte la vita quasi 700 persone, un numero impressionante se paragonato al tasso dei suicidi nel mondo libero che è 15, 20 volte minore.
E pur se in alcuni casi è stata individuata una correlazione tra suicidi e sovraffollamento, quest'ultimo è solo una delle cause che, in alcuni penitenziari, rende la vita impossibile da vivere. I suicidi costituiscono indubbiamente la massima tragica manifestazione dell'orrore delle nostre carceri, ma i problemi non si esauriscono qui. Giovedì scorso a Roma un detenuto con “fine pena mai” è deceduto nel reparto detentivo dell'ospedale Sandro Pertini. L'uomo, Franco Febi, di 62 anni, soffriva di diabete e problemi cardiaci e dopo un malore è stato portato in ospedale, ma il trasferimento non è servito a salvargli la vita. Questo mentre in carcere tornano a diffondersi malattie che la storia epidemiologica del nostro paese aveva dimenticato, come la scabbia e la tubercolosi.
Conferma ultima - se mai ve ne fosse stato bisogno - del connotato irreparabilmente letale, oltre che criminogeno, del nostro sistema penitenziario.
*tratto da www.liberainformazione.org