di Redazione
L’Unità ha pubblicato il 17 marzo 2012, l’appello di alcuni autorevoli giuristi del lavoro per una “buona modifica dell’art. 18” con applicazione del c.d. “modello tedesco”. Il documento ha formato oggetto della seguente lettera dell’avvocato Domenico d’Amati, pubblicata il giorno successivo:
“Signor Direttore,
l’appello di alcuni tra i più autorevoli giuristi del lavoro per una buona modifica dell’art. 18, pubblicato dall’Unità, è ampiamente condivisibile, in particolare quando spiega l’importanza fondamentale della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo. Esso però merita una riflessione critica animata da intento costruttivo, nella parte in cui propone, per i licenziamenti motivati da ragioni economiche e organizzative, che il giudice possa scegliere, in caso di ritenuta illegittimità, fra la reintegrazione e un’indennità economica, sentito il parere dei sindacati. L’appello non spiega in base a quali criteri il giudice debba motivare, come vuole l’art. 111 della Costituzione, la sua scelta fra le due sanzioni. Va escluso ovviamente che egli debba uniformarsi al parere espresso dalle organizzazioni sindacali, perché ciò comporterebbe una lesione dell’autonomia della magistratura. Deve escludersi del pari che al giudice possa essere riconosciuta un’assoluta discrezionalità che introdurrebbe, oltre tutto, elementi di grave incertezza e rischi di disparità di trattamento. A mio avviso non v’è ragione di cambiare il sistema attuale, in cui la valutazione del giudice è ancorata a criteri oggettivi: la soppressione del posto, l’impossibilità di impiegare il lavoratore licenziato in altra collocazione. L’unico elemento di incertezza è dato dall’affermazione, in alcune sentenze, che le decisioni di ridimensionamento e conseguente riduzione della forza lavoro non debba essere dettata da finalità di mero accrescimento del profitto, in assenza di serie difficoltà economiche. Questo orientamento è discutibile, sul piano giuridico, con riferimento al principio di libertà di iniziativa economica sancito dalla Costituzione ma il punto può essere eventualmente superato mediante una norma interpretativa, che chiarisca l’applicabilità, in materia di licenziamenti per ragioni organizzative di una recente norma – l’art. 30 della legge n. 183/2010 – secondo cui “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge contengano clausole generali, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso a sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro.”
Quanto agli inconvenienti causati dalla lentezza della giustizia del lavoro, cui si fa riferimento nell’appello, essi vanno certamente eliminati, perché chi ne soffre non è soltanto l’imprenditore (che peraltro spesso è autore di tattiche difensive dilatorie) ma anche e soprattutto il lavoratore rimasto disoccupato.
Sarebbe sufficiente applicare la vigente legge sul processo del lavoro, un modello di modernità, per contenere i tempi del giudizio entro limiti accettabili. In alcuni centri, come Torino, una causa di lavoro dura tra primo grado e appello, un anno o poco più. Basta estendere, con adeguate misure organizzative lo standard torinese a tutti gli uffici giudiziari per alleggerire gli importi delle condanne al risarcimento del danno, commisurato al periodo fra il licenziamento e la reintegrazione. Dispiace che il presidente del consiglio Monti, quando affronta i temi della giustizia, si limiti a parlare del futuro tribunale delle imprese e non citi mai la giustizia del lavoro la cui efficienza interessa non solo i lavoratori ma anche gli imprenditori che operano correttamente, spesso esposti alla concorrenza sleale di chi si sottrae ai costi derivanti dall’applicazione delle leggi sul lavoro”.