Articolo 21 - IDEE IN MOVIMENTO
Il Divo Giulio
di Nicola Tranfaglia
Quando all’inizio del ventunesimo secolo -nel marzo 2001 ad esser precisi - pubblicai con l’editore Garzanti (Laterza, per ragioni a me ignote, non si era sentito di pubblicarlo - come avrebbe fatto di nuovo dieci anni dopo con il Populismo autoritario su Berlusconi e il berlusconismo) il mio libro sul sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti (La sentenza Andreotti, Garzanti editore, 160 pagine), misi in luce i forti compromessi che avevano caratterizzato la carriera dell’uomo politico democristiano, i suoi forti rapporti con Michele Sindona, la sua sempre valida appartenenza alla destra democristiana, pur con le mosse tattiche che era stato sempre solito intraprendere.
Ma ora, malgrado il segreto di Stato che, in maniera scandalosa, le classi dirigenti italiane continuano a mantenere sulle questioni più importanti della storia repubblicana, una giornalista (Antonella Beccaria) e uno studioso di storia (Giacomo Pacini) hanno pubblicato una buona ricerca sul Divo Giulio (pp.288, 14 euro) che ricostruisce il ruolo che ebbe l’uomo politico romano nel 1947, quando era sottosegretario nel III governo De Gasperi (dal quale vennero espulsi i partiti della sinistra, non soltanto il PCI staliniano ma anche il partito socialista di Nenni e Morandi).
Andreotti aveva solo ventotto anni ma era già molto attivo e capace di muoversi bene nell’agone politico della guerra fredda e dell’anticomunismo atlantico. Così entra in contatto con Francesco Macaluso, del circolo di estrema destra triestino Guglielmo Oberdan. L’uomo va a Roma e chiede ad Andreotti due milioni e mezzo di lire. Ne riceverà soltanto novecentocinquantamila.
La cosa più interessante non sono tanto i successivi versamenti compiuti dalla Presidenza del Consiglio (che pure qualcosa significano) su cui decide sempre il sottosegretario Andreotti, ma piuttosto due aspetti che erano già chiari nel mio libro ma che la nuova ricerca, appena pubblicata, mette in luce con maggiore chiarezza.
In questa sua azione a sostegno dell’estrema destra neo- fascista come quella del gruppo Oberdan a Trieste c’è il tentativo di costruire una “democrazia protetta” intorno alla Democrazia cristiana e ad alcuni partiti laici di centro, come i repubblicani, i liberali e i socialdemocratici per evitare non la eventuale collaborazione ma addirittura il confronto democratico con tutte le forze di sinistra, il partito di Azione di lì a poco defunto, i socialisti di Nenni e Morandi e i comunisti di Togliatti e poi per troppo poco tempo ahimè di Enrico Berlinguer.
Il tentativo si protrae per più di quarant’anni e vede il divo Giulio sempre al centro. Sarà addirittura il presidente del Consiglio dei governi di unità nazionale negli anni settanta, sopravviverà a Moro e a tutti gli altri leader democristiani delle varie correnti e finirà la sua carriera come senatore a vita nominato dal presidente eversivo Francesco Cossiga.
Ma non diventerà come avrebbe potuto diventare presidente della repubblica negli anni novanta e non cedere il posto ad Oscar Luigi Scalfaro. Ed è questa, a pensarci bene, nello stesso tempo la sua sconfitta finale e una fortuna per gli italiani.
Vorrei spiegare sinteticamente perché. Tutta la sua carriera politica mostra con chiarezza il cinismo e la disinvoltura con cui il divo Giulio cambia posizione all’interno del partito, si mette d’accordo con la sinistra quando non può più farlo con la destra ed è davvero l’uomo di tutte le stagioni. Se fosse diventato capo dello Stato in un momento cruciale come quello degli anni novanta la crisi repubblicana avrebbe potuto avere esiti diversi da quelli che ebbe con un presidente fedele alla costituzione scritta come Scalfaro e dotato di grande autorità, non meno di Andreotti. E i suoi commerci con la destra avrebbero potuto tornare in auge con risvolti imprevedibili.
C’è un vecchio proverbio che citarono gli storici spagnoli a proposito dell’attentato dinamitardo all’erede designato di Francisco Franco e capo del governo, ammiraglio Carrero Blanco, saltato in aria a Madrid il 20 dicembre 1973. I miei amici dicevano che quel che avvenne mostrava come un evento luttuoso può avere conseguenze positive, che il male insomma può anche generare il bene.
Non so se un simile proverbio possa aver davvero applicazione nella mancata elezione di Andreotti alla presidenza della repubblica ma credo che si possa dire almeno che la carriera dell’uomo politico romano non sembrava la più adatta per un compito di tendenziale (e almeno parziale) neutralità di fronte al gioco politico dei partiti presenti sul piano parlamentare.
Ma ora, malgrado il segreto di Stato che, in maniera scandalosa, le classi dirigenti italiane continuano a mantenere sulle questioni più importanti della storia repubblicana, una giornalista (Antonella Beccaria) e uno studioso di storia (Giacomo Pacini) hanno pubblicato una buona ricerca sul Divo Giulio (pp.288, 14 euro) che ricostruisce il ruolo che ebbe l’uomo politico romano nel 1947, quando era sottosegretario nel III governo De Gasperi (dal quale vennero espulsi i partiti della sinistra, non soltanto il PCI staliniano ma anche il partito socialista di Nenni e Morandi).
Andreotti aveva solo ventotto anni ma era già molto attivo e capace di muoversi bene nell’agone politico della guerra fredda e dell’anticomunismo atlantico. Così entra in contatto con Francesco Macaluso, del circolo di estrema destra triestino Guglielmo Oberdan. L’uomo va a Roma e chiede ad Andreotti due milioni e mezzo di lire. Ne riceverà soltanto novecentocinquantamila.
La cosa più interessante non sono tanto i successivi versamenti compiuti dalla Presidenza del Consiglio (che pure qualcosa significano) su cui decide sempre il sottosegretario Andreotti, ma piuttosto due aspetti che erano già chiari nel mio libro ma che la nuova ricerca, appena pubblicata, mette in luce con maggiore chiarezza.
In questa sua azione a sostegno dell’estrema destra neo- fascista come quella del gruppo Oberdan a Trieste c’è il tentativo di costruire una “democrazia protetta” intorno alla Democrazia cristiana e ad alcuni partiti laici di centro, come i repubblicani, i liberali e i socialdemocratici per evitare non la eventuale collaborazione ma addirittura il confronto democratico con tutte le forze di sinistra, il partito di Azione di lì a poco defunto, i socialisti di Nenni e Morandi e i comunisti di Togliatti e poi per troppo poco tempo ahimè di Enrico Berlinguer.
Il tentativo si protrae per più di quarant’anni e vede il divo Giulio sempre al centro. Sarà addirittura il presidente del Consiglio dei governi di unità nazionale negli anni settanta, sopravviverà a Moro e a tutti gli altri leader democristiani delle varie correnti e finirà la sua carriera come senatore a vita nominato dal presidente eversivo Francesco Cossiga.
Ma non diventerà come avrebbe potuto diventare presidente della repubblica negli anni novanta e non cedere il posto ad Oscar Luigi Scalfaro. Ed è questa, a pensarci bene, nello stesso tempo la sua sconfitta finale e una fortuna per gli italiani.
Vorrei spiegare sinteticamente perché. Tutta la sua carriera politica mostra con chiarezza il cinismo e la disinvoltura con cui il divo Giulio cambia posizione all’interno del partito, si mette d’accordo con la sinistra quando non può più farlo con la destra ed è davvero l’uomo di tutte le stagioni. Se fosse diventato capo dello Stato in un momento cruciale come quello degli anni novanta la crisi repubblicana avrebbe potuto avere esiti diversi da quelli che ebbe con un presidente fedele alla costituzione scritta come Scalfaro e dotato di grande autorità, non meno di Andreotti. E i suoi commerci con la destra avrebbero potuto tornare in auge con risvolti imprevedibili.
C’è un vecchio proverbio che citarono gli storici spagnoli a proposito dell’attentato dinamitardo all’erede designato di Francisco Franco e capo del governo, ammiraglio Carrero Blanco, saltato in aria a Madrid il 20 dicembre 1973. I miei amici dicevano che quel che avvenne mostrava come un evento luttuoso può avere conseguenze positive, che il male insomma può anche generare il bene.
Non so se un simile proverbio possa aver davvero applicazione nella mancata elezione di Andreotti alla presidenza della repubblica ma credo che si possa dire almeno che la carriera dell’uomo politico romano non sembrava la più adatta per un compito di tendenziale (e almeno parziale) neutralità di fronte al gioco politico dei partiti presenti sul piano parlamentare.
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