di Domenico d’Amati
I trecentomila cinquantenni esodati rimasti privi di occupazione e di reddito per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile potrebbero essere un’avanguardia se passerà il progetto di riforma dell’articolo 18. Tende a dimenticarsi che il disegno governativo concerne non solo i licenziamenti individuali ma anche quelli collettivi, che possono interessare grandi masse di lavoratori.
Il documento Monti-Fornero sulla riforma del mercato del lavoro dedica all’argomento tre righe nelle quali si afferma che per i vizi dei licenziamenti collettivi si applicherà il regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti economici: vale a dire la sola tutela indennitaria e non quella reintegratoria. Se questo disegno passerà non vi saranno sostanziali remore a massicce riduzioni di personale finalizzate sostanzialmente allo svecchiamento della forza lavoro e alla sostituzione di lavoratori maturi e consapevoli dei loro diritti con altri più docili e meno costosi ovvero con il ricorso a varie forme di precariato (che la riforma agevola dal momento che esonera le aziende dall’obbligo di precisare la causale dell’assunzione a termine in occasione del primo contratto).
Attualmente i licenziamenti collettivi, ossia quelli che interessano almeno cinque persone nell’arco di quattro mesi, sono disciplinati alla legge n. 223 del 1991 che a sua volta richiama l’articolo 18 St. Lav..
In base a questa normativa, in caso di licenziamento collettivo, l’azienda deve preventivamente informare le organizzazioni sindacali e il Ministero del Lavoro sulle ragioni dei licenziamenti e sui motivi per cui non è possibile evitarli. Successivamente, nella fase finale, l’azienda deve applicare, nella scelta del personale da licenziare, criteri oggettivi e controllabili e specificare le loro modalità di applicazione.
L’omessa o non veritiera informazione, sia nella fase iniziale che in quella finale, comporta l’inefficacia dei licenziamenti con applicazione dell’articolo 18: il giudice cioè, su richiesta del lavoratore, può annullare il licenziamento, ordinare la sua reintegrazione nel posto di lavoro e condannare l’azienda al risarcimento del danno, in misura pari alla retribuzione relativa al periodo dal licenziamento alla reintegrazione. Lo stesso rimedio è possibile in caso di arbitrarietà nella scelta del personale da licenziare.
Questa normativa di grande civiltà, voluta dall’Unione Europea, persegue l’obiettivo della trasparenza delle decisioni che incidono sull’esistenza di molti lavoratori e consente al sindacato di svolgere un ruolo di cogestione della crisi, controllando le ragioni addotte dall’impresa e indicando misure alternative ai licenziamenti.
Con la riforma Monti, anche nel caso di licenziamenti collettivi illegittimi per carenze informative non sarà più possibile la reintegrazione, ma il giudice potrà soltanto condannare l’azienda al pagamento di un’indennità. Si tratta di un deterrente insufficiente, perché di solito le aziende offrono, in queste occasioni, il pagamento di un incentivo all’esodo. In questo modo sarà possibile sottrarsi al dovere di corretta informazione sulle scelte dimensionali e il ruolo dei sindacali sarà ridotto ad un intervento formale. Inoltre l’applicazione di criteri di scelta arbitrari consentirà favoritismi o penalizzazioni che oggi non sono consentiti.