di Simona Silvestri
“Il primo bollettino medico uscito dalla Eternit, edito dal SIL (servizio igienico lavoro) è dell’aprile 1977, e termina con una raccomandazione: lavoratori, ricordatevi che il fumo delle sigarette è cancerogeno. Beh, però, ci ammazzano con l'amianto e ci mettono sull'avviso che il fumo delle sigarette uccide”. Nicola Pondrano ricorda molto bene quel bollettino presentato ai lavoratori di Casale Monferrato dai medici della Eternit: lui, ex dirigente della CGIL casalese, allora era uno degli operai della multinazionale degli svizzeri. Lo ha ricordato a Torino, al maxiprocesso contro il magnate Stephan Schmidheiny e il barone belga Ghislain de Cartier de Marchienne, e lo ha ricordato ancora una volta in occasione della quinta Giornata mondiale per le vittime dell'amianto, celebrata anche a Casale lo scorso 28 aprile.
Perché ancora oggi si continua a morire per amianto e non solo, a causa delle malattie professionali. Un fenomeno che diventa ogni giorno più preoccupante, perché le reali conseguenze dell'esposizione a sostanze cancerogene non possono essere calcolate soltanto su dati passati, ma devono anche essere ipotizzate per gli anni a venire. A Casale, e negli altri stabilimenti italiani della Eternit a Rubiera, Cavagnolo e Bagnoli, le vittime sono state circa tremila, tra deceduti e ammalati. Il picco delle morti non è ancora stato raggiunto: per esso si dovrà aspettare il 2015- 2020.
“Quando una persona muore per un tumore professionale, è sicuramente l’organizzazione del lavoro a ucciderla, perché non si tratta dell’infortunio per cui c’è un incidente, un operaio che cade da un ponteggio. Un lavoratore con un tumore o una malattia professionale io lo considero un fatto molto, ma molto più grave, perché spesso e volentieri i datori di lavoro sanno perfettamente che è l’organizzazione del lavoro che uccide”. Come è successo alla Eternit: si sapeva che l'amianto era cancerogeno, ma nessuno si è mai preoccupato di fornire le giuste precauzioni.
“Vale la pena di ribadire che loro sapevano che l'amianto uccideva e non hanno fatto nulla per difendere la salute di questi lavoratori, ma la cosa altrettanto grave nel nostro paese è che questo avviene ancora per i tumori in agricoltura e nel mondo della chimica”.
Pondrano avverte sulla necessità di una reale politica della prevenzione, che passi attraverso una semplificazione delle norme e degli enti che devono occuparsi di malattie professionali, ma soprattutto attraverso sentenze esemplari. “Noi ci aspettiamo delle sentenze, non delle sanzioni, che facciano testo e acquistino un significato a livello internazionale. Solo attraverso questo potremmo sviluppare una sensibilità internazionale, e vanificare alcuni business mondiali. Per uno Schmidheiny o un de Marchienne pagare 300 o 400 milioni di euro non è il problema; il vero problema è prenderli con un mandato di cattura internazionale e metterli in galera. Ancora oggi in Brasile ci sono quattro stabilimenti della Eternit, dello stesso gruppo internazionale che fa riferimento anche allo stesso Schmidheiny”.
L'amianto continua infatti a essere prodotto, non solo in sud America, ma anche in India e in Africa. “Solo a colpi di grandi sentenze possiamo educare e sensibilizzare, per cominciare a instaurare una battaglia globale dei diritti”.
All’Italia guardano con attenzione anche i colleghi francesi dell’Andeva, l’Associazione nazionale di difesa delle vittime dell’amianto, presenti a Casale: il processo di Torino, e la sentenza che ne deriverà, potrà costituire un importante precedente anche Oltralpe, dove si sta cercando di estendere il processo penale ai datori di lavoro colpevoli di non aver preservato i propri dipendenti dai rischi dell’esposizione a sostanze cancerogene.
Accanto al processo, resta comunque la necessità di costruire un impianto legislativo che vada realmente a sostegno delle vittime, e che includa anche i morti indiretti causati dall’amianto, che a Casale sono circa cinquecento: gente comune che ha avuto la sola colpa di lavorare nel posto sbagliato, nelle vicinanze dell’ex stabilimento.
“Dobbiamo batterci per questi cittadini che hanno perso la vita a causa dell’amianto, perché anche per loro ci sia una giustizia di carattere legale, ma anche sociale. Io e Bruno Pesce (coordinatore dell’Associazione famigliari vittime amianto) abbiamo dato un contributo nella stesura di un documento programmatico che doveva aiutare coloro che erano deputati a legiferare (su questa problematica, ndr). Ne è uscita la legge 244 del 2007, un autentico aborto legislativo, che doveva avere come obiettivo generale quello di tutelare non solo i lavoratori ma anche i cittadini, gli inermi, coloro che non hanno in questo paese nessuna forma di ammortizzatore sociale. Quel testo, in sede di legiferazione, è stato modificato, da esso sono scomparsi i cittadini”.
Obiettivo di quella legge era anche la creazione del Fondo nazionale vittime dell'amianto, che oggi è ancora fermo: dalla sua costituzione nel 2008 non sono ancora arrivati i decreti attuativi. Da esso, inoltre, rimangono ancora esclusi i cittadini che subiscono danni per l'inquinamento dell'ambiente.
La strada verso una giustizia è ancora lunga. “Va bene la Giornata internazionale vittime dell’amianto, ma dobbiamo alzare il tiro per sviluppare nel paese e in Europa una discussione dedicata esclusivamente alla prevenzione dei luoghi di lavoro e non solo.” A queste porle fanno eco quelle di Romana Blasotti Pavesi, 81 anni, presidente dell'Associazione esposti amianto e alle spalle cinque parenti morti a causa dell'amianto
“Da anni lottiamo per avere giustizia. Ora che finalmente c'e' un processo vogliamo che si vada fino in fondo”.