Articolo 21 - INTERNI
Franco Fortugno, cinque anni dopo
di Giulia Fresca
Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un uomo perbene, sempre sorridente ed affabile. Quel 16 ottobre 2005 quando la notizia della sua uccisione davanti alla sede di palazzo Nieddu nel centro di Locri, cominciò a rimbalzare di bocca in bocca, segnò uno spartiacque indelebile per la Calabria. «Franco Fortugno è stato ammazzato!» Le linee telefoniche, poco dopo le 17,30, impazziscono nella giornata simbolo della democrazia in Calabria mentre si vota alle primarie dell'Unione. A sparare, a bruciapelo davanti ad alcuni testimoni, un killer fuggito su un'auto guidata da un complice dopo avergli esploso contro cinque colpi di pistola calibro nove.
Improvvisamente, quel giorno, l’opinione pubblica prende consapevolezza che la ‘ndrangheta non mina soltanto il potere giudiziario, ma anche quello della politica ed infatti subito si parla di delitto “politico-mafioso”. Si cercano gli “interessi” di qualcuno che Fortugno avrebbe disturbato ed immediatamente, tra i corridoi e quasi sottovoce, escono fuori alcuni nomi di “possibili” mandanti.
Vendette trasversali, interessi di partito, voti sottratti o venuti meno ad una elezione che doveva essere “certa” ed in mezzo, quella che da sempre è stata la macchina da guerra della ‘ndrangheta calabrese: la sanità.
Non a caso Franco Fortugno è un medico e non a caso anche Domenico Crea, che gli subentrerà in Consiglio Regionale lo è, del quale si dice sia in odore di ‘ndrangheta. Sarà arrestato nel 2008 per ordine della Direzione Distrettuale Antimafia, ma non per l’omicidio dell’ex vice presidente del Consiglio regionale bensì nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità.
Un omicidio, che a distanza di cinque anni, non conosce ancora i veri mandanti, ma solo colpevoli.
Dopo cinque mesi di indagini, da quel giorno, nove persone vengono arrestate con accuse di vario tipo, dall’associazione di tipo mafioso, alla rapina a mano armata, all’omicidio, il cui autore materiale viene individuato in Salvatore Ritorto, “mandato”, si darà in seguito, da Alessandro e Giuseppe Marcianò rispettivamente caposala ed infermiere dell’ospedale locrese.
Alla funzione di questi “mandanti” non crede quasi nessuno. Si cercano ancora i nomi che stanno più su, al vertice della piramide che ha voluto quel delitto, ed è la vedova Fortugno, che dopo la morte del marito viene eletta al Parlamento, a chiedere che si continuino le indagini.
Quel giorno di cinque anni fa, la Calabria monopolizzò i media di tutto il mondo ed il movimento “Ammazzateci tutti” apparve subito come l’azione di giovani che rivendicavano il riscatto di una regione offesa.
Dopo cinque anni è tempo di bilanci. Quel Movimento oggi è solo sulla carta, utile a qualcuno per continuare ad essere beneficiato dalla notorietà che qualche residuale trasmissione televisiva vi dedica e dagli scambi di voti che producono il riconoscimento di qualche “finanziamento”. La prova arriva il 2 febbraio del 2009 quando al momento della sentenza di primo grado nel processo per la morte di Franco Fortugno, il movimento Ammazzateci tutti è assente dall’aula, così come i rappresentati delle Istituzioni.
Dopo cinque anni, a Locri, ieri a ricordare Franco Fortugno sono stati il Presidente della Camera Gianfranco Fini ed il guardasigilli Angelino Alfano il quale ha anche ricevuto gravi minacce per essere intervenuto nella città reggina. Le parole di Maria Grazia Laganà rappresentano il clima che non si placa in questa regione dove tutto rimane sospeso :«Tali azioni di stampo terroristico – ha dichiarato la vedova Fortugno solidarizzando con Alfano - attuate dai mafiosi, devono indurre gli organi dello Stato ad agire ora, ad agire in fretta, ad agire con sempre più forza per dare il colpo finale alla criminalità organizzata. Rafforzare il carcere duro per i mafiosi, confiscare i beni dagli stessi acquisiti illegalmente, è questa l’attività che può aiutare molto a sconfiggere questo male che tiene bloccato lo sviluppo dei territori infetti e non garantisce alcun futuro per i più giovani».
Parole come “Legalità”, “Giustizia”, “Senso dello Stato”, hanno poco senso in una regione dove non sono ancora ripristinati i canoni della “normalità”. «Ogni volta che un cittadino viene ucciso dalla mafia - ha detto ieri il Presidente della Camera Gianfranco Fini- sia esso di destra o di sinistra, diventa un martire. Non esistono vittime di serie A o serie B ed è per questo che Fortugno deve essere considerato come un cittadino d’Italia, come un padre. Dando memoria a queste vittime si ha un modo per contrastare la criminalità».
Parole che però non trovano, purtroppo, un riscontro reale.
La Calabria ha bisogno di altro, ha bisogno di “normalità”, di lavoro vero, onesto, di politici senza interessi personali, di magistrati sostenuti e non oltraggiati, di uomini liberi.
Solo allora, quando questo sogno utopistico si avvererà, forse, potrebbero non esserci più dei “Franco Fortugno” da ricordare.
Improvvisamente, quel giorno, l’opinione pubblica prende consapevolezza che la ‘ndrangheta non mina soltanto il potere giudiziario, ma anche quello della politica ed infatti subito si parla di delitto “politico-mafioso”. Si cercano gli “interessi” di qualcuno che Fortugno avrebbe disturbato ed immediatamente, tra i corridoi e quasi sottovoce, escono fuori alcuni nomi di “possibili” mandanti.
Vendette trasversali, interessi di partito, voti sottratti o venuti meno ad una elezione che doveva essere “certa” ed in mezzo, quella che da sempre è stata la macchina da guerra della ‘ndrangheta calabrese: la sanità.
Non a caso Franco Fortugno è un medico e non a caso anche Domenico Crea, che gli subentrerà in Consiglio Regionale lo è, del quale si dice sia in odore di ‘ndrangheta. Sarà arrestato nel 2008 per ordine della Direzione Distrettuale Antimafia, ma non per l’omicidio dell’ex vice presidente del Consiglio regionale bensì nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità.
Un omicidio, che a distanza di cinque anni, non conosce ancora i veri mandanti, ma solo colpevoli.
Dopo cinque mesi di indagini, da quel giorno, nove persone vengono arrestate con accuse di vario tipo, dall’associazione di tipo mafioso, alla rapina a mano armata, all’omicidio, il cui autore materiale viene individuato in Salvatore Ritorto, “mandato”, si darà in seguito, da Alessandro e Giuseppe Marcianò rispettivamente caposala ed infermiere dell’ospedale locrese.
Alla funzione di questi “mandanti” non crede quasi nessuno. Si cercano ancora i nomi che stanno più su, al vertice della piramide che ha voluto quel delitto, ed è la vedova Fortugno, che dopo la morte del marito viene eletta al Parlamento, a chiedere che si continuino le indagini.
Quel giorno di cinque anni fa, la Calabria monopolizzò i media di tutto il mondo ed il movimento “Ammazzateci tutti” apparve subito come l’azione di giovani che rivendicavano il riscatto di una regione offesa.
Dopo cinque anni è tempo di bilanci. Quel Movimento oggi è solo sulla carta, utile a qualcuno per continuare ad essere beneficiato dalla notorietà che qualche residuale trasmissione televisiva vi dedica e dagli scambi di voti che producono il riconoscimento di qualche “finanziamento”. La prova arriva il 2 febbraio del 2009 quando al momento della sentenza di primo grado nel processo per la morte di Franco Fortugno, il movimento Ammazzateci tutti è assente dall’aula, così come i rappresentati delle Istituzioni.
Dopo cinque anni, a Locri, ieri a ricordare Franco Fortugno sono stati il Presidente della Camera Gianfranco Fini ed il guardasigilli Angelino Alfano il quale ha anche ricevuto gravi minacce per essere intervenuto nella città reggina. Le parole di Maria Grazia Laganà rappresentano il clima che non si placa in questa regione dove tutto rimane sospeso :«Tali azioni di stampo terroristico – ha dichiarato la vedova Fortugno solidarizzando con Alfano - attuate dai mafiosi, devono indurre gli organi dello Stato ad agire ora, ad agire in fretta, ad agire con sempre più forza per dare il colpo finale alla criminalità organizzata. Rafforzare il carcere duro per i mafiosi, confiscare i beni dagli stessi acquisiti illegalmente, è questa l’attività che può aiutare molto a sconfiggere questo male che tiene bloccato lo sviluppo dei territori infetti e non garantisce alcun futuro per i più giovani».
Parole come “Legalità”, “Giustizia”, “Senso dello Stato”, hanno poco senso in una regione dove non sono ancora ripristinati i canoni della “normalità”. «Ogni volta che un cittadino viene ucciso dalla mafia - ha detto ieri il Presidente della Camera Gianfranco Fini- sia esso di destra o di sinistra, diventa un martire. Non esistono vittime di serie A o serie B ed è per questo che Fortugno deve essere considerato come un cittadino d’Italia, come un padre. Dando memoria a queste vittime si ha un modo per contrastare la criminalità».
Parole che però non trovano, purtroppo, un riscontro reale.
La Calabria ha bisogno di altro, ha bisogno di “normalità”, di lavoro vero, onesto, di politici senza interessi personali, di magistrati sostenuti e non oltraggiati, di uomini liberi.
Solo allora, quando questo sogno utopistico si avvererà, forse, potrebbero non esserci più dei “Franco Fortugno” da ricordare.
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