di Roberto Morrione
Le motivazioni della Corte d’Appello di Palermo che ha condannato Marcello Dell’Utri a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa vanno al di là della conferma, già di per sé clamorosa, del ruolo di collegamento fra la mafia e Silvio Berlusconi coperto per vent’anni dal senatore. Marcello Dell’Utri ha praticamente fondato Forza Italia e affiancato fino ad oggi il premier come consigliere più o meno segreto, certo autorevole, svolgendo centrali compiti di organizzazione e di promozione di massa in tutti gli snodi decisivi del confronto politico, quali gli appuntamenti elettorali e concentrando allo stesso tempo su di sé oscuri rapporti e collegamenti d’affari su cui grava l’ombra dell’illegalità e della corruzione, tuttora indagati da inchieste giudiziarie come nel caso della cosiddetta P3.
Nonostante la sentenza dei giudici di Palermo abbia insistito sulla dicotomia fra i collegamenti mafiosi sicuramente intercorsi dagli anni ’70 fino al ’92 e gli anni successivi, sostenendo che non risultano provate né credibili le affermazioni del pentito Spatuzza circa il ruolo che Dell’Utri e Berlusconi avrebbero avuto nella trattativa fra settori dello Stato e Cosa Nostra, negando inoltre a priori la credibilità delle accuse di Massimo Ciancimino e di altri collaboratori di giustizia, si pongono oggettivamente una serie di pesanti domande. Come è possibile che un uomo come Dell’Utri così strettamente legato alla mafia, per ambiente d’origine, rapporti continui con il gotha mafioso basati sulla reciproca fiducia e sullo scambio in affari, ben raffigurati nella riunione milanese in cui l’allora capo di Cosa Nostra Stefano Bontate e altri boss incontrarono Berlusconi, garante attraverso l’amico mafioso Vittorio Mangano della “sicurezza” del suo capo e della sua famiglia a fronte delle minacce e dell’estorsione mafiosa, abbia di colpo interrotto nel ’92 ogni rapporto con Cosa Nostra e per quale strano motivo? E come giudicare l’enorme responsabilità forse non solo morale che lo stesso Berlusconi si assunse scegliendo, attraverso Dell’Utri, di assicurarsi protezione dalla mafia non rivolgendosi alla polizia, ma portandosi ad Arcore un falso stalliere e autentico capomafia come Mangano, fino a finanziare con considerevoli somme l’organizzazione e i crimini di Cosa Nostra, in uno scambio – come attestano numerose testimonianze – direttamente voluto e diretto da Riina? Ricordiamoci che Paolo Borsellino, due giorni prima della strage di Capaci e due mesi prima della sua stessa fine in Via D’Amelio, nell’ intervista televisiva ai giornalisti francesi Calvi e Moscardò, sul rapporto fra il capitale sporco dei crimini mafiosi e il riciclaggio operato dalla finanza e dall’impresa, descrisse la figura di Vittorio Mangano come “capo fila dei traffici di droga e della mafia al Nord”…Come potevano non saperlo allora Dell’Utri e Berlusconi e come potevano ancor più ignorarlo quando in pubbliche occasioni, l’ultima alla vigilia delle elezioni politiche del 2008, hanno definito Mangano “un eroe”, perché non aveva ceduto alle pressioni dei giudici contro di loro? Particolare sconcertante, ma non trascurabile: cosa voleva dire Dell’Utri dopo una delle udienze del processo d’appello, quando magnificando nuovamente l’eroismo di Mangano, aggiunse un sibillino:”…in quelle condizioni io non so se avrei avuto la forza di comportarmi nello stesso modo” . Forse un velato, ma minaccioso messaggio nell’eventualità che la sua vicenda giudiziaria finisca in malo modo, cioè con il carcere?
In ogni caso, per cercare di fare completa luce su quanto accadde nei sanguinosi anni delle stragi fra il ’92 e il ’94, sulle trattative fra settori dello Stato e Cosa Nostra e sull’attendibilità delle numerose affermazioni, comprese quelle di Spatuzza e Massimo Ciancimino, circa il ruolo che vi avrebbero avuto mandanti esterni, in una fase che segnò la fine della Prima Repubblica e l’avvento del nuovo potere berlusconiano, continuano faticosamente a scavare numerose Procure e c’è solo da attenderne i risultati finali. Arriveranno peraltro nel pieno di una crisi del Paese che non è solo politica, ma economica e, ancor prima, morale e civile, in un’Italia divisa e confusa, dove l’illegalità, l’elusione di ogni regola, l’egoismo individualista, l’assenza di responsabilità e di un’identità condivisa, insieme a una crescente volgarità di cui è corresponsabile il sistema dei media, hanno fra i padri la corruzione e l’abuso del potere di chi è al comando della nazione: è la migliore porta d’ingresso delle mafie di ogni tipo e a ogni livello.
In questo quadro, dove peraltro non mancano nella società e anche nella politica persone e forze organizzate che cercano di fermare la deriva, la figura del premier appare oggi sempre più ricattabile e accomunabile, nella discendente parabola trentennale del suo impero e delle sue pulsioni verso il potere assoluto, a quegli interessi criminali che ne hanno in vario modo prima segnato l’ascesa, poi accompagnato fino a inserirsi nell’ attuale governo, come nel caso dell’onorevole Cosentino o da sempre al suo fianco, come nel caso di Marcello Dell’Utri.
Dell’Utri, Berlusconi e il pizzo alla mafia - di Lorenzo Frigerio* / Dell’Utri e la mafia, ma nessuno va a casa. Serve un governo di emergenza etica - di Giuseppe Giulietti*