di Maria Bonafede*
In seguito agli interventi di Mina Welby e Beppino Englaro nella popolare trasmissione di Fazio e Saviano, alcune associazioni “per la vita” – o pro life, in omaggio a quelle nordamericane – hanno chiesto un’equivalente opportunità per testimoniare la loro opposta visione del problema: hanno insomma chiesto alla Rai di garantire loro una di tribuna per ribadire l’assoluto principio della sacralità della vita che dovrebbe impedire ogni intervento teso a “staccare la spina” di macchine che consentono artificialmente una funzione biologica. L’azienda Rai si è prontamente detta d’accordo e, al momento, l’unica resistenza proviene dagli autori, Fazio e Saviano. Vedremo come andrà a finire ma, ai fini del nostro ragionamento, non è questo il tema più rilevante.
La questione vera è quella della “par condicio” nel dibattito pubblico su temi eticamente sensibili.
E’ infatti paradossale che associazioni “per la vita” che godono degli eccezionali spazi di presenza televisiva garantita ai vertici cattolici, ai politici cattolici, agli intellettuali ed agli scienziati cattolici, gridino alla lesa “par condicio”. Quando il tema del “fine vita”, proprio in relazione ai casi Welby e Englaro era assai più caldo, le reti televisive pubbliche e private hanno offerto a esponenti del mondo cattolico uno spazio pressoché esclusivo per spiegare come e perché quello che la moglie di Piergiorgio e il padre di Eluana chiedevano fosse, al fondo, libertà di omicidio: un atto violento e irresponsabile contrario all’etica naturale e al principio dell’assoluta sacralità della vita umana. Dov’era, allora, la par condicio? Da una parte due persone che portavano su di sé il peso di una scelta drammatica, dall’altra i loro giudici pronti a brandire come clave principi assoluti. Un confronto del tutto squilibrato tra “dolorosi casi umani” e “principi non negoziabili”. Peggio ancora quando si cercava di bilanciare il confronto contrapponendo un “laico” – che nel gergo comune della comunicazione italiana equivale a ateo e quindi a persona naturaliter priva di una morale che non sia quella dettata dalle pulsioni umane – a un “cattolico”, inteso come il rappresentante istituzionale di un unico pensiero dogmatico. E gli altri? Dov’era, allora, la par condicio per i “laici che credono”, ovvero per coloro che sono mossi da una fede ma respingono l’idea che una chiesa o una religione possano imporre un’etica di stato? Dov’era lo spazio per i cattolici che la pensavano, al fondo, come Mina o Beppino? Quale par condicio è stata garantita alle altre comunità di fede che hanno un’idea della vita diversa da quella della Chiesa cattolica? Chi ha mai visto un pastore o un teologo protestante invitato in un talk show che abbia potuto spiegare che dal suo punto di vista la vita non è soltanto un cuore che batte grazie a una macchina ma è anche una relazione? Che proprio l’amore di Dio per le sue creature dovrebbe risparmiare inutili e artificiali sofferenze? Che proprio la dignità della persona a immagine di Dio impone di rispettare ciò che lei, lucidamente e in libertà, ha chiesto nel caso di una malattia che la costringesse a una vita artificiale?
No, queste testimonianze in televisione non sono arrivate perché quando si parla di bioetica nel nostro sistema della comunicazione c’è spazio solo per i casi umani, qualche anticlericale e per il monsignore di turno. Il dramma è che chi non c’è in televisione non c’è nella società. Ma un dramma ancora più grande è che, esclusione dopo esclusione, censura dopo censura, silenzio dopo silenzio, l’Italia diventa un paese più povero di idee e di libertà.
*moderatora della Tavola valdese
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